LADY MACBETH, di William Oldroyd, con Florence Pugh, Cosmo Jarvis, Paul Hilton. Nelle sale dal 15 giugno.
Di Irene Merli
Un esordio cinematografico folgorante, di rara potenza, elegante, originale, con una meravigliosa fotografia e una protagonista che da qui in avanti non passerà inosservata. Giovane, giovanissima, con un volto da ragazzina ma espressiva e sicura nella sua difficile parte al pari un’attrice consumata.
Inghilterra rurale, 1865. Katherine, una fanciulla di modeste condizioni, viene venduta in moglie ad un possidente di mezza età, in cambio di un terreno e qualche animale. All’epoca usava, tra i nuovi ricchi della Gran Bretagna, e non solo. All’inizio la vediamo velata, trepidante, ingenua come ogni giovane sposa dell’Ottocento.
L’illusione romantica non ha neppure il tempo di iniziare.
Katherine viene relegata in poche stanze del maniero di famiglia, controllata a vista da una cameriera che ha il compito di svegliarla, vestirla e condurla attraverso gli angusti limiti della sua vita matrimoniale. Il marito le dimostra indifferenza, il suocero è un uomo tirannico e odioso, interessato solo alle sue possibilità di concepire eredi.
Il tempo scorre soffocante e malinconico, in giorni sempre uguali, fino a quando i due uomini non partono per un lungo viaggio d’affari. La fanciulla inizia allora a esplorare la brughiera, a passeggiare nella vasta proprietà, tra le piante di erica, lungo il fiume. Un giorno per caso si avventura tra i lavoratori. Tra di loro c’è uno stalliere bello, sfrontato e senza scrupoli, che presto vince le sue resistenze di moglie trascurata e la avvinghia in una passione senza limiti, vissuta in piena libertà, senza remore e timori. I problemi iniziano quando tornano alla proprietà prima il suocero e poi il marito. La voce dell’illecita liaison è infatti circolata. Ma Katherine non sente ragioni. Folle d’amore e non solo, non ha nessuna intenzione di separarsi dal suo amante ed è pronta a liberarsi di chiunque per impedirlo.
Sino alla crudeltà più ingiustificabile.
William Oldroyd è uno dei più affermati registi teatrali britannici, e per il suo primo film si è ispirato a “Lady Macbeth del Distretto di Mcensk”, un denso racconto di Nicolaj Leskov, precedentemente adattato da Sostakovic per un’opera nel 1934, che poi fu bandita da Stalin sin dalla prima rappresentazione. Oldroyd e la sceneggiatrice Alice Birch hanno trasportato l’azione drammatica dalla Russia sovietica all’Inghilterra vittoriana, rimanendo piuttosto fedeli alla fonte, rispettandone anche la brevità – il film dura meno di 88 minuti. Ma hanno decisamente capovolto il finale, invertendo il senso al destino di questa eroina che da innocente si fa mostruosa, capace di decidere la sua vita e la sua indipendenza anche attraverso la violenza, senza subire alcuna punizione.
La messa in scena di Oldroyd procede per sottrazione, rigorosa, essenziale, fino a far esplodere le emozioni nel modo più bruciante e ambiguo.
Chi è Katherine, in fondo? La personificazione del male o una vittima che si fa carnefice? Il regista britannico non azzarda risposte, bensì si limita a ritrarre la sua protagonista, divorata dalla passione, anziché dall’ambizione, in una serie di scene di vita che sembrano un susseguirsi di magnifici dipinti, fotografati a luce naturale o a lume di candela, fino alla potentissima inquadratura finale, che non scioglie alcuna ambiguità.