[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Franca10-media.jpg[/author_image] [author_info]di Franca Roiatti, da Detroit. Friulana, si è laureata in Scienze Politiche all’Università di Trieste. Giornalista e scrittrice vive a Milano, ma viaggia appena le è possibile. Ha lavorato per numerosi quotidiani, radio e riviste, prima di approdare al settimanale Panorama dove si occupa di esteri. È autrice di due libri: Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi Editore, 2010), il primo libro che approfondisce la tematica del landgrabbing, e La rivoluzione della lattuga. Si può riscrivere l’economia del cibo? (EGEA, 2011), un viaggio tra orti urbani, gruppi di acquisto solidale, mercati a filiera corta, alla scoperta della nuova democrazia alimentare. [/author_info] [/author]
Ha raccontato questa e altre storie in La rivoluzione della Lattuga. Si può riscrivere l’economia del cibo? (EGEA, 2011)
Una ventina di volontari con stivali di gomma e guanti da giardinaggio si mettono in cerchio nel parcheggio della mensa per i poveri del monastero cappuccino. Patrick, barba rossa e capellino da baseball chiede a tutti: «Vi ricordate dove ci siamo interrotti l’altra volta? Chi sa dirmi cos’è il capitale sociale?». Silenzio, sguardi imbarazzati. Poi a turno giovani afroamericani, pensionati, vivaiste in libera uscita buttano lì una risposta. Si parla di relazioni sociali, del valore della comunità, di una nuova forma di capitalismo. Che qui si costruisce con la zappa e le sementi. La Earthworks urban farm di Detroit è una delle prime e ora più grandi fattorie urbane nate nella capitale in rovina dell’auto americana.
I segni del fallimento, appena dichiarato dall’amministrazione cittadina, sono evidenti. Basta mettersi al volante e percorrere il cuore di Motor City. Un pellegrinaggio assurdo tra mozziconi di case soffocate dai rovi o divorate da incendi, edifici sventrati, discariche di copertoni. Le strade consunte tagliano prati che un tempo erano quartieri pieni di scuole, negozi, vita. È almeno quarant’anni che Detroit sta morendo, condannata dall’emigrazione delle grandi fabbriche automobilistiche in periferia e da una criminalità rampante Nell’ultimo decennio più di un quarto dei suoi abitanti se ne sono andati. Quelli rimasti superano di poco i 700 mila: la metà di Milano, sparsi, però, su un’area doppia; difficile da gestire e costosa da mantenere.
Eppure in mezzo a questa disperazione c’è chi ha visto l’occasione per ricominciare. Sono i cappuccini di Eartworks, e tutti gli altri giovani, famiglie, professori universitari, associazioni che hanno cominciato a coltivare gli spazi vuoti di Detroit. Sognando di far ripartire l’economia (e la società) dalle carote. È soprattutto un esercizio di speranza che qualcuno ha riassunto nello slogan: da Motown a Grown, dalla città dei motori, alla città che coltiva (ma anche che cresce).
Gli orti comunitari registrati alla Detroit Agriculture Network sono oggi più di 1350. Altre decine continuano a nascere nei cortili delle chiese, dietro le scuole. Un movimento inarrestabile, spontaneo e illegale fino ad aprile di quest’anno, quando il consiglio comunale ha approvato un’ordinanza che autorizza e regola l’agricoltura urbana entro i confini cittadini. Norme scritte con un lungo lavoro di consultazione tra i funzionari pubblici e le persone che hanno deciso di mettersi all’opera senza aspettare il semaforo verde (o i contributi) da parte del governo.
Tra loro c’è Greg Willerer, che nel 2006 ha mollato l’insegnamento e insieme alla moglie Olivia si è semplicemente messo a coltivare la terra vuota di fianco a casa sua. È nata così Brother Nature, 4mila metri quadrati di rucola, pomodori e spinaci a Corktown, quartiere da cui si scorgono le torri di vetro del centralissimo Crysler center. «Abbiamo cominciato sotto le ali di Grown in Detroit, un progetto grazie al quale gli orti cittadini trovano sbocco per i loro prodotti» spiega Greg. «Ora facciamo da soli. Non è facile, ma serviamo alcuni ristoranti, abbiamo la nostra CSA (una sorta di gruppo di acquisto, ndr) il sabato mattina vendiamo all’Eastern Market».
L’ortomercato cittadino, nato nel 1891, il sabato si trasforma in Farmers market e apre le porte ai piccoli coltivatori delle campagne del Michigan e ai produttori cittadini come Greg.
Dan Carmody, dirige la società non profit incaricata di gestire il mercato ed è convinto che il cibo sia la scommessa vincente per Detroit. Uno studio di qualche anno fa ha decretato che la città dei motori è un Food desert, un deserto alimentare, perché è più facile comprare sigarette e superalcolici, che frutta e verdura fresca. «Odio quell’espressione» confessa Carmody, «perché se è vero che Detroit ha un pessimo sistema di distribuzione del cibo, la periferia ha un numero altissimo di negozi familiari, gestiti dai discendenti degli immigrati italiani, albanesi, est europei, i cui nonni vendevano qui all’Eastern Market. E il Michigan ha un’incredibile diversità agricola.Abbiamo un tessuto ricchissimo su cui ricostruire il sistema alimentare».
La ricostruzione per Carmody passa da un piano decennale di rilancio del mercato che vale 100 milioni di dollari, comprende l’ammodernamento della struttura e la creazione di un laboratorio-incubatore dove chi vuole avviare un’attività di trasformazione dei prodotti freschi possa cominciare, senza doversi sobbarcare costosissimi investimenti iniziali. «Vogliamo raddoppiare l’apertura al pubblico del mercato, al martedì, con uno spazio dedicato proprio alle specialità. Così permettiamo alle piccole aziende di crescere e poi trasferirsi in altri quartieri della città. Riportare entro i confini di Detroit il 20 per cento della produzione, trasformazione e vendita al dettaglio del cibo può creare fino a 5mila posti di lavoro, generare guadagni aggiuntivi pari a 125 milioni di dollari e tasse per quasi 20 milioni di dollari», stima Carmody; mentre la Michigan State University ha calcolato che a Detroit sarebbe possibile ottenere tra il 17 e il 42 per cento della frutta e tra il 31 e il 76 per cento della verdura consumate in città.
Numeri, su cui molti riflettono. Anche John Hantz, imprenditore, con casa nell’Indian village di Detroit, enclave di lussuose ville neo Tudor. Il risultato è un’idea che ha fatto il giro del globo: comprare dalla città lotti abbandonati e creare la più grande fattoria urbana del mondo, che potrebbe estendersi fino a mille ettari. Il progetto segna il passo e potrebbe ridimensionarsi per i timori della città e l’ostilità, neppure troppo nascosta, di tutti gli altri contadini di Detroit. «Non penso che le esperienze commerciali siano negative di per sé, ma il profitto non può essere l’unica spinga dietro l’agricoltura urbana», riassume Malik Yakini, anima dell D-Town farm, fattoria, centro educativo, luogo di aggregazione, nato dal sudore e dalla voglia di riscatto della comunità afro americana di Detroit. «Temiamo che il progetto di Hantz non sia sostenibile dal punto di vista ambientale e non tenga in dovuto conto la giustizia sociale. È il piano elaborato da un bianco in una città all’85 per cento nera». Hantz si difende sostenendo di essere ancora in fase di apprendimento, la città traccheggia e finora ha dato il via libera solo a una piantagione di 15 mila alberi per farne abeti natalizi e legname.
Progetta, o forse sogna, in grande, ma con altri obbiettivi anche Gary Wozniak. Un passato da consulente finanziario e da responsabile sviluppo alla SHAR, fondazione che assiste migliaia di detenuti ed ex detenuti, spesso con problemi di droga e alcool. Pensando a loro e ai troppi giovani senza lavoro della città dell’auto, Gary ha immaginato insieme a università, architetti e ong, Recovery Park: una fattoria urbana, un incubatore per aziende di trasformazione del cibo e un allevamento indoor di pesci, ma anche un maneggio, un parco, un birrificio. Lui è convinto che si possano creare fino 18 mila posti di lavoro adatti anche alle persone di cui SHAR si fa carico «Alle piante non importa se sai leggere e scrivere, se hai un passato burrascoso o hai problemi mentali o di tossicodipendenza, chiedono solo cure. E prendersene cura insegna molte cose fondamentali nella vita: matematica, scienza, lavoro di gruppo». Insomma rafforza quel capitale sociale di cui si discute prima di prendere zappa e pala alla fattoria della mensa cappuccina.
«C’è chi crede che l’agricoltura urbana sia un modo per favorire la crescita della città» soconclude Patrick Crouch, «ma a Detroit ci sono ancora troppe persone che non possono permettersi di comprare cibo decente. Noi dobbiamo pensare soprattutto a loro». Patrick è, tuttavia, convinto che i due percorsi, quello verso lo sviluppo economico e quello che porta a una maggior giustizia sociale si possano intersecare. «Utopia?» chiede sorridendo? «Forse, ma il fallimento nel raggiungere un grande obiettivo, significa successo nell’ottenere uno più piccolo. Se puntando alla luna si arriva alle stelle va benissimo. A me le stelle piacciono un sacco».