Peperoni: The Mission

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Mi ero seduta davanti al computer con lʼintenzione di parlare dʼamore ai tempi della crisi. E invece mi ritrovo per le mani un misto di vergogna, compassione, rabbia e orgoglio.

Perché qualche giorno fa è stata diffusa la notizia che a fine Novembre il palinsesto della TV di Stato RAI, in collaborazione con lʼAlto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e lʼorganizzazione non governativa italiana Intersos, manderà in onda The Mission, reality show ambientato nei campi profughi in Sudan e nella Repubblica del Congo, dove VIP della portata culturale di Paola Barale, Al Bano, Michele Cucuzza, Barbara De Rossi o Emanuele Filiberto racconteranno e spettacolarizzeranno la loro esperienza a contatto con i rifugiati di questi Paesi dilaniati da povertà, sfruttamento e guerre.

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A questo punto, non credo ci sia bisogno di spiegarvi da dove vengano la mia vergogna e la mia rabbia. Per quanto mi riguarda, la meschinità e la pochezza di tale atto non trovano alcun tipo di giustificazione umana. La noncuranza con cui il dolore altrui viene sfruttato è a dir poco ignobile. Faccio fatica a mettere insieme le parole per descrivere il disgusto che mi sale pensando a quali livelli di ipocrisia e ottusità il genere umano sia arrivato. Livelli nuovi, per cui le parole, appunto, ancora non esistono. E sono livelli talmente alti, talmente andati oltre qualsiasi tipo dʼaccettazione, da essere tornati a uno stadio iniziale, batterico, anzi, parassitico, o comunque di sistemi troppo poco evoluti per poter dare vita a qualcosa di anche solo lontanamente sviluppato.

Ma anche così, sarebbe un insulto a qualcosa di così puro e benefico come un organismo allo stadio embrionale. E quindi a me, travolta dallʼuragano di unʼindignazione troppo grande per essere espressa, mi viene in mente, quasi stupidamente, quella vignetta di Shultz in cui unʼagguerritissima Lucy urla contro il mondo “Forza ragazzi, è lʼora dellʼipocrisia”. Perché è di questo che si tratta, alla fine dei conti e ancora una volta, come per la storia degli F35 e della “guerra umanitaria” di cui avevamo parlato qualche settimana fa: unʼesasperante ipocrisia e un ennesimo insulto ai diritti umani.

La compassione, a differenza di quello che si può pensare, non è rivolta ai rifugiati, perché essi non sono persone da compatire (altro sentimento al limite della tollerabilità), non sono persone a cui fare la carità, ma persone da aiutare, persone al cui fianco combattere, ma, soprattutto, persone a cui restituire, restituire la libertà di una vita degna e libera che il nostro smodato benessere gli ha tolto. La mia compassione è rivolta, invece, a chi ha ideato un reality show del genere, o a chi ne ha preso parte, perché unʼottusità del genere non può che essere compatita. Un livello così becero non lo augurerei a nessuno.

E allora, vi chiederete voi, allʼinterno di tutta questa triste storia, lʼorgoglio dove sta? Sta nella petizione indetta da Andrea Casale, un mio quasi-coetaneo di Parma, che su Change.org si è subito adoperato per fermare questo scempio, lanciando lʼiniziativa #nomission. E tanto più orgoglio arriva quando le firme raccolte, nel giro di pochissimi giorni, sono già 44.500. Ne mancano solo 5.500. Ovviamente, nulla assicura che, raggiunto lʼobiettivo, la RAI darà ascolto a questa richiesta e bloccherà il programma, ma sarebbe comunque un gesto forte, una dimostrazione che vale la pena di dare, piuttosto che far crollare tutto nellʼomertà. È solo grazie a queste firme che non mi vergogno di essere italiana e che trovo la sicurezza di dire che quello che la TV di Stato, pagata con le tasse dei cittadini, offre a questi stessi cittadini non è qualcosa da loro voluto, ma una spazzatura imposta, nel tentativo di obnubilare le menti dei suoi spettatori e tenerli sotto scacco.

Ma noi siamo qui per parlare di cinema, non di reality show. Giusto. E allora andiamo per analogie. The Mission. The Mission è un film del 1986 diretto da Roland Joffé, con Jeremy Irons, Robert De Niro e una colonna sonora mozzafiato, entrata della memoria collettiva, firmata Ennio Morricone. È una pellicola dʼeccellenza, davvero commovente, un vero classico. Per chi non lo sapesse, tratta della colonizzazione attuata dai portoghesi e della Chiesa cattolica in Sud America. Lo schiavismo, gli stermini, lʼinvasione, lʼimposizione. Lʼipocrisia di un popolo presumibilmente “civile” che, con la scusa di civilizzare a sua volta popoli stranieri e salvarli dalla loro condizione selvaggia, bestiale ed eretica, li ha fondamentalmente dilaniati e usurpati delle loro risorse.

E, per quanto mostri in maniera egregia e senza veli la crudeltà che si è abbattuta su etnie così pacifiche e indifese, anche lo stesso film non è stato in grado di essere onesto fino in fondo, non trovando il coraggio di mostrare lʼeffettiva realtà dei fatti, e cioè che i gesuiti in verità non sono rimasti a combattere a fianco dei Guaranì. Anche loro, dopo aver invaso, seppur in maniera pacifica, i territori e la spiritualità indigena, hanno lasciato soli i loro “discepoli” nel momento del bisogno e della disfatta, troppo codardi per fronteggiare ciò che loro stessi avevano scatenato.

[sz-youtube url=”http://www.youtube.com/watch?v=-c2Ppcrs6Os” /]Dallʼaltro lato, però, è vero anche che la presenza e, soprattutto, lotta di Padre Gabriel e di Rodrigo Mendoza servono al film per comunicare quello che poi è, alla fin fine, il messaggio ultimo. Oltre che allo scempio compiuto, la pellicola vuole dar voce a un esempio, quello di un atto dʼamore, ma non a livello religioso, quanto puramente umano. Per quanto sia stato ingiusto imporre la propria religione a chi stava bene già così come stava, con il proprio credo e i propri usi e costumi, quello che Gabriel e Rodrigo fanno, ognuno secondo i propri modi e i propri mezzi, rimane comunque un gesto onesto e altruista, fino allʼultimo. Lasciare che i Guaranì fossero liberi di agire secondo la propria volontà, instaurando con loro un rapporto paritario, di condivisione e uguale spartizione, sia dei diritti che dei doveri, non è religione, è umanità, onesta umanità. Basta semplicemente accogliere, reciprocamente, che sia una cultura, una persona, una volontà, una lingua, un sorriso.

Accogliere a braccia aperte, con amore. Perché non nego che, per quanto, come dice bene il Cardinale Altamirano, tutta quelle gente probabilmente avrebbe preferito che nessuno di quegli invasori, nel male e nel bene, fosse mai arrivato con le sue navi e le sue armi e i suoi cavalli e la sua religione, qualcosa di buono, un qualche tipo di miglioramento è stato apportato. Ma si tratta di miglioramenti avvenuti grazie alla comprensione che nessuno al mondo deve essere compatito o aiutato. Al massimo, affiancato.

E mi chiedo se tutto questo Paola Barale, Emanuele Filiberto e compagnia bella lo sanno. Mi chiedo se arriverà mai il momento che smetteremo di fare reality show e faremo reality e basta. Che la carità porta distruzione, perché è un gesto che scusa lʼingiustizia. Che The Mission sarà solo un film e non il peperone indigesto di un colonialismo spietato che non accenna a svanire, anzi, comincia a mimetizzarsi in maniera eccellente, affinando al massimo le sue tattiche di sopravvivenza. E io, alla fine, mi sono comunque ritrovata a parlare dʼamore, anche se non era per riflettere su queste meschine ragioni che volevo farlo.



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