Riflessione-intreccio tra le pagine di un libro e una piazza. Una stazione alle 22.05 di un giorno in cui l’estate è iniziata e la pioggia è appena cessata.
Di Gabriella Ballarini
Milano.
“Ci vediamo alle 22 e qualcosa in Stazione Centrale”
“Ok, a dopo”
Esco di casa in anticipo, voglio farmi un giro. Piove (maledizione), vado alla libreria della mia piccola casa, poso lo sguardo sullo scaffale dei libri ancora da leggere. Non ho istinti, almeno ho la sensazione di non averne, scelgo in base al colore: Jean Claude Izzo, Il sole dei morenti (pubblicato in Italia nel 2004 dalla casa editrice E/O). Leggo la quarta di copertina che dice: ultima opera dell’autore. (Si inizia a leggere un autore dalla sua ultima opera? Non lo so, non mi importa).
Il libro in mano, la borsa a tracolla, l’ombrello a proteggere tutto quello che ci sta sotto.
Metropolitana, linea verde. Inizio a leggere di vivi e di morenti. Di fantasmi e di panchine, banchine, angoli, freddo, strade.
Arrivo in Stazione Centrale, l’ombrello mi cade esattamente nello spazio tra il vagone e il marciapiede, ringrazio che non si trattasse del libro, non lo avrei potuto ricomprare, quando riemergo dai sotterranei metropolitani vedo i tre commessi che chiudono con un catenaccio la porta a vetri della libreria e guardano fuori per decretare la fine di un’altra giornata.
Chissà cosa pensavano quei tre. E quello nel mezzo, cosa pensava?
Oriento un tizio con giacca e trolley che non trova il suo hotel e inizio a girare per la piazza.
Ecco apparire a me quello che avevo sentito raccontare, ma che non avevo ancora visto o almeno non con la calma del tempo che non scappa. Ero in anticipo, con il mio libro tra le mani.
D’un tratto il libro è di fronte ai miei occhi.
Immagini nitide di vivi e morenti, di famiglie e uomini soli.
Quando le luci scendono e i negozi spengono i registratori di cassa, si accendono le vite nascoste delle stazioni, vite dimenticate anche da me, ricordate da Izzo, ma dimenticate da me. Faccio due giri, perché durante il primo ero troppo impegnata a guardare i miei passi a terra, chè lo sguardo non regge il confronto con la realtà. Mi siedo e leggo un capitolo dal titolo “Nel quale affiora l’amarezza e la grandiosità dei sogni”. Leggo velocemente, per puro spirito di distrazione.
“Come se finalmente il passato avesse ritrovato il suo indirizzo e gli rispedisse tutta la posta non recapitata in quindici anni”.
E allora mi rialzo e ricomincio a camminare. Al semaforo da cui si vede in lontananza la fermata Repubblica, due ragazzi di forse 16 anni mi avvicinano. Parli francese? Mi chiedono. Cammini qui da sola? Continuano. E poi mi raccontano. Sai, noi siamo in viaggio, un’avventura, ma oggi ha piovuto un sacco e quando piove è un problema. Stanotte dormiremo qui – mi indica un muretto tipo marmo bianco – e tu dove dormirai? Vivi qui? E poi mi chiedono ancora: perché cammini qui da sola?
Ripercorro da capo il piazzale antistante stazione Centrale, faccio un elenco nella mia testa. Faccio sempre infiniti elenchi nella mia testa.
Vedo una donna con il capo coperto da una vecchia stoffa tenere per mano un bambino e il marito che le dice parole che io non capisco, ma il tono è rassicurante, gli occhi di lei sono spaventati come se avesse visto qualcosa che le ha messo il vuoto addosso. Si trascinano verso le persone in piedi dentro alla fontana prosciugata, alcuni volontari di un’organizzazione (che son tutti vestiti di rosso, con un berretto in testa) stanno portando dei sacchetti con del cibo del McDonald’s per le persone che cibo non ne hanno. Va bene anche quel cibo lì quando l’alternativa è niente?
Non so darmi una risposta. Cammino e c’è la polizia, poi c’è l’esercito e poi anche la vigilanza della stazione.
Il colore della pelle dei passanti mi dice di Africa nera e di Africa del nord e di viaggi e anche i vestiti mi dicono qualcosa, mi dicono della sommaria scelta dentro ad un grande mucchio, di infradito di due colori diversi, di odori forti, di una lunga notte che è appena iniziata.
Cammino e trovo il mio angolo da cui guardare ancora tutto quel rincorrersi di posti da occupare e coperte nelle quali avvolgersi, mentre nell’Ostello si festeggia e si celebra una qualche ricorrenza, una ragazza indossa una specie di corona di cartone e si parla inglese e anche tedesco.
Ferma all’angolo appoggio un piede al muro per aiutarmi nell’attesa, riapro il libro: “Cacofonia di dolori e lacrime.”
Nel capitolo ci sono scritte le parole di questa canzone:
E così mi arriva un altro messaggio.
Ore 23.00
“Non posso venire, scusa”
E i libri si intrecciano alle piazze e alle canzoni e le migrazioni e Titì che muore nel libro in una notte in cui nessun senzatetto sarà salvato dall’estrema fine.
Toutes les nuits, j’conte les jours
L’autore si chiama Paul Personne.
Personne.