Recensione di Starve and immolate, di Banu Bargu
Pubblichiamo una recensione di Nicola Perugini a Starve and Immolate. The Politics of Human Weapons di Banu Bargu (New York: Columbia University Press, 2014), tratta da Lavoro culturale
Come indagare e teorizzare gli scioperi della fame, i digiuni, le auto-immolazioni, il farsi scudi umani e le varie forme contemporanee di politica dell’autodistruzione? Come dare senso – in un contesto internazionale segnato da politiche il cui fine biopolitico sovrano sembra essere la protezione della vita – a forme di lotta il cui fine ultimo è la fine, la morte? Come comprendere la trasformazione dei corpi umani in armi umane e l’emergere di una forma di espressione e di intervento politico comune a diversi contesti di lotta – dai rifugiati e i richiedenti asilo “securizzati” che protestano contro il loro trattenimento in diversi centri di detenzione del mondo, fino ai prigionieri politici palestinesi che combattono contro la loro detenzione politica e per la liberazione nazionale, passando per i prigionieri di Guantanamo?
Starve and Immolate. The Politics of Human Weapons (trad. it. Affamarsi e immolarsi. La politica delle armi umane, un testo che meriterebbe un’edizione italiana) di Banu Bargu affronta tali questioni offrendo un racconto provocatorio della trasformazione della vita umana in arma: l’esempio a cui ricorre l’autrice è quello dello sciopero della fame organizzato nel 2000 da prigionieri politici turchi – appartenenti a differenti correnti della sinistra radicale extra-parlamentare – contro la creazione delle carceri di massima sicurezza e delle celle d’isolamento.
Il libro combina un apparato teoretico molto sofisticato con la ricerca d’archivio e un intenso racconto etnografico delle visite dell’autrice nei quartieri periferici di Istanbul durante il periodo di digiuno di massa contro le svolte securitarie dello Stato turco. Digiuno in cui hanno perso la vita numerosi prigionieri.
In uno dei primi capitoli, l’autrice offre una ricostruzione storica dell’ossessione dello Stato autoritario per i rischi di sicurezza causati dalla sinistra, dal nazionalismo curdo, dagli islamisti: dalla creazione kemalista dello Stato, attraverso l’era delle riforme economiche e della cosiddetta trasformazione del governo militare in governo civile, fino alla proclamazione dello stato di emergenza degli anni Ottanta e alla promulgazione della legge antiterrorismo del 1991.
È in questa prospettiva di longue durée di criminalizzazione e persecuzione delle opposizioni che Bargu ci chiede di comprendere lo sviluppo della retorica delle prigioni come “problemi” e come luoghi di scontro, crisi, disordine e indisciplina che hanno condotto allo sciopero della fame di massa iniziato nel 2000 e conclusosi nel 2007 con 121 “martiri” tra i prigionieri.
L’argomentazione chiave dell’autrice è che la sistematica trasformazione delle prigioni in luoghi di punizione da parte dello Stato è ciò che ha generato la possibilità di una contro-politica attraverso lo sciopero della fame sino alla morte, o in altre parole attraverso la trasformazione delle prigioni in spazi di necro-resistenza. Il libro spiega come, dopo la trasformazione delle prigioni in problema politico e luoghi di lotta, durante gli anni Novanta lo Stato ha riconfigurato il sistema penitenziario attraverso vari espedienti legali e decreti governativi.
Secondo Banu Bargu, l’istituzione delle carceri di massima sicurezza e delle celle d’isolamento ha costituito un salto di qualità nel modo di governo statale delle prigioni. A questa riconfigurazione del modo di governo carcerario è corrisposta anche una più ampia riconfigurazione della sovranità turca, con lo Stato che, mentre riforma il sistema carcerario, si fa protettore del diritto alla vita attraverso una forma di sovranità biopolitica e di controllo individualizzato «dei corpi e delle menti dei suoi cittadini, insorti e non». In altre parole, la svolta securitaria nelle prigioni è andata di pari passo con la svolta securitaria nella società. La “cellurizzazione” e l’isolamento dei prigionieri ha rispecchiato una più ampia strategia di “cellurizzazione” sovrana di qualsiasi forma di dissenso politico.
Gli scioperanti della fame di cui parla il libro di Bargu si sono mobilitati contro questo modello emergente, utilizzando la loro potenziale morte come strumento di resistenza nel Duemila e negli anni successivi, producendo una sfida necropolitica allo Stato. Dal suo canto, lo Stato ha risposto alla sfida degli scioperanti sviluppando quello che Bargu, ispirata da Deleuze e Guattari, chiama «assemblaggio biosovrano»: un mix di leggi d’eccezione, uso della violenza contro gli scioperanti descritta dalle forze sovrane come un’operazione finalizzata a salvare la vita degli scioperanti stessi («Operazione Ritorno alla Vita»), e forme di negoziato con gli scioperanti volte ad alleggerire le norme di isolamento e di concessione della grazia a quelli di loro sull’orlo della morte.
Lo Stato ha faticato a spezzare il movimento dei prigionieri in sciopero della fame. Bargu fa risalire a una lunga tradizione storica di resistenza della sinistra nelle carceri turche la disciplina con cui il movimento della fame-fino-alla-morte si è opposto allo Stato: quello delle “comuni carcerarie” e il loro sviluppo come forma di “comunismo pratico” in prigione attraverso l’esercizio fisico, intellettuale, le attività educative e ricreative, e il cucinare insieme.
Inoltre, Bargu analizza il movimento all’interno della traiettoria di una lunga tradizione di auto-immolazione da parte dei prigionieri politici nelle carceri turche avviata almeno a inizio secolo scorso. Tuttavia, la protesta dell’ottobre del Duemila ha segnato un’escalation senza precedenti in queste pratiche, con gli scioperanti che hanno adottato per la prima volta in massa la pratica dello sciopero della fame fino alla morte contro lo Stato securitario, mettendo a rischio le loro vite per esporre la gravità morale del problema delle prigioni e per ottenere consenso tra la gente fuori.
Il libro continua ricostruendo in maniera illuminante i dibattiti interni tra le varie fazioni della sinistra in merito all’opportunità o meno di necropoliticizzare la lotta e di rivendicare il diritto alla morte. Dopo l’iniziale supporto ai prigionieri, le masse popolari si abituarono infatti alla loro morte, sino al 2006. In quell’anno, dopo una lunga mobilitazione contro l’isolamento carcerario, e quando il noto avvocato e attivista per i diritti umani Behiç Aşcı si unì allo sciopero della fame, il dibattito pubblico sulle prigioni di sicurezza si riaccese. Ciò avvenne anche grazie alla partecipazione di settori della società civile turca che in precedenza avevano rifiutato di considerare lo sciopero della fame e l’auto-immolazione come strumenti di lotta politica legittimi e utili.
Secondo Bargu, questo passaggio da una battaglia politica a tutto campo contro lo Stato – che ha caratterizzato le rivendicazioni politiche e legali olistiche del primo movimento degli scioperanti alla richiesta umanitaria di migliorazione delle condizioni di detenzione avanzata nel 2006 da Behiç Aşcı e dalle organizzazioni della società civile che lo hanno sostenuto – ha fatto sì che «una battaglia per la democrazia si trasformasse in una battaglia democratica contro l’isolamento» e ha «posto fine alla battaglia della fame-fino-alla-morte». In altre parole, lo sciopero della fame è progressivamente diventato strumentale e finalizzato a uno scopo umanitario limitato – piuttosto che al cambiamento della natura dello Stato – e la pratica del movimento della morte-come-fine-della-lotta è stata abbandonata.
A essere particolarmente affascinante in uno dei capitoli finali del libro è la teorizzazione che Bargu offre del movimento della fame-fino-alla-morte come forma peculiare di politicizzazione laica della morte all’interno del marxismo. Secondo la studiosa, una certa dedizione esistenziale alla giustizia, comune a differenti componenti della sinistra marxista turca, ha portato a una forma di spiritualità politica trasversale a quelle forze di sinistra che Bargu chiama «martirio marxista». Con l’emergere di questa nuova forma di soggettività, le interpretazioni tradizionali turche del marxismo, la «rivoluzione graduale» e l’avanguardismo tradizionale sono stati sostituiti da forme autodistruttive di resistenza “anti-gradualiste” adottate dalle varie componenti di sinistra attive nello sciopero della fame.
Tutto ciò si è tradotto nella nascita di una pratica sacrificale avanguardista in cui la fame-fino-alla-morte è stata concepita come una guerra di classe contro quello Stato neoliberale securitario incarnato dalle prigioni di sicurezza. Bargu descrive questo processo come «teologicizzazione della politica marxista», vale a dire la trasformazione dei militanti in militanti-martiri, facendo eco ad altre tradizioni di martirio, ma attraverso una specifica traiettoria storica e politica laica di sinistra.
Quello che la pratica della fame-fino-alla-morte è riuscita a raggiungere è stata la diffusione di una consapevolezza popolare, per quanto limitata, sullo Stato securitario.
Inoltre, tale pratica è riuscita a mostrare la debolezza della sinistra social-democratica turca e la sua complicità nella messa in atto di una forma di governo securitaria e repressiva delle prigioni (il partito della Sinistra Democratica faceva parte della coalizione di governo che ha amministrato lo sciopero della fame attraverso l’«assemblaggio biosovrano»). In senso più ampio, l’auto-immolazione è riuscita a minacciare il monopolio dello Stato sulla vita e sulla morte.
Particolarmente intrigante nel libro di Bargu è il fatto che le pratiche di resistenza nutrono direttamente la teoria, e viceversa. La trasformazione della morte in un’arma messa in atto dal movimento dei prigionieri in sciopero della fame attraverso la pratica della fame-fino-alla-morte complica la nostra comprensione delle «armi umane» al di là delle esistenti teorie sullo Stato, sul contro-terrorismo, sul fanatismo religioso, sul conflitto asimmetrico e sul liberalismo biopolitico.
Le tattiche corporee specifiche di auto-immolazione chiedono di riconsiderare la relazione tra vita e potere con ma oltre Foucault. Infatti, le pratiche di necroresistenza superano la «mimica biopolitica» delle forme classiche di resistenza carceraria che mirano al miglioramento delle condizioni di vita in prigione. E, in contrasto con le teorie necropolitiche esistenti, il caso del movimento turco della fame-fino-alla-morte mette in luce come la politicizzazione della morte non sia una prerogativa sovrana (come sostenuto da Giorgio Agamben e Achille Mbembe). In altre parole, la necropolitica non è sempre condannata alla passività: e può anche diventare un atto di resistenza anti-sovrana, una necropolitica dal basso, con tutte le inquietanti conseguenze del caso.