Treno di notte

In carrozza, si parte. Per tenere assieme un’Italia ancora divisa, ferita, inquieta. Con un’anima meticcia che ama negare se stessa, correndo veloce, salvo poi trovarsi ferma alla stazione di partenza

Non sarà un viaggio facile. Prima ancora di entrare nella stazione di Milano Porta Garibaldi, il treno notte 795 diretto a Reggio Calabria ha già accumulato venticinque minuti di ritardo. Le voci sono sempre le stesse, quelle vecchie quanto è vecchia l’Italia: «Problemi tecnici alla partenza ­– Torino – . Bisognava dare la precedenza alla Freccia Rossa. Il macchinista si è sentito male, dovevano cercare la riserva. Qualcuno si è buttato di sotto, ‘sta crisi maledetta».

Al binario 16 i viaggiatori sono tanti, le loro valigie enormi. È una babele: agli immancabili immigrati che tornano a casa per le ferie, i terùn che pronunciano frasi in lumbard con un immortale accento meridionale, si mischiano giovani nordeuropei con zaini pesanti da interrail e coppie di innamorati entusiasti neanche si trattasse di prendere l’Orient Express. Sono quindici ore di viaggio da trascorrere seduti su poltrone vecchie di vent’anni e sperando di non capitare nello scompartimento dei logorroici o delle famiglie con bambini irrequieti costrette dalle ristrettezze economiche dei tempi a viaggiare in low cost.

Carrozza nove. Coda treno. Salendo la scaletta il fervore collettivo è più interpretabile. Non sarà come arrivare a Istanbul da Parigi, ma attraversare il Bel Paese ha sempre qualcosa di speciale. Il passo su quel gradino porta più vicini al mare, al sole e alle coste Sud Italia. La gente che lascia Milano sorride. Anche la scommessa sui compagni di viaggio sembra perdere la sua impellenza. Sei posti disponibili. Due bambini in scompartimento. Sono così differenti Alex e Youssef. Il primo ha sei anni, è biondo con tratti slavi, sono quelli della madre, che rimane a Milano a lavorare; viaggia con il padre, calabrese di Ricadi che per sedare l’eccitazione di inizio viaggio e i «siamo arrivati?» del figlio gli porge due barrette al cioccolato. «Però ora stai buono». Youssef ha la sua stessa età, ma tratti somatici differenti. Anche lui è uguale alla madre, maghrebina. Il padre è dell’Est: al telefono parla russo, al figlio si rivolge in italiano con un marcata e impeccabile cadenza torinese.

I due iniziano a giocare con tutto ciò che hanno a disposizione, videogiochi, fogli di carta, mani, immaginazione. Il treno è lento, l’immobilità alla quale costringe i suoi passeggeri  permette di vedere oltre quei gesti comuni. Le prime pagine dei giornali titolano a caratteri cubitali sugli insulti leghisti al ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge; alzando gli occhi dal foglio si vedono due bambini diversi per colore della pelle che giocano senza curarsi delle loro differenze. Allora è una questione di ideologie. È una questione di opportunità. Allora l’odio è una cosa da grandi, perché, per istinto, il colore della pelle è solo un dettaglio. Accorgersi di ciò dà piacere al viaggio, e speranza al futuro.

Il treno entra a Bologna, passato il trentatreesimo anniversario dalla strage del 2 agosto 1980. Come sarebbe stato transitare da qui trentatré anni fa? Saremmo tutti incolumi, ma il pensiero di averla anche solo sfiorata quella tragedia non avrebbe fatto chiudere occhio per parecchie notti. E così il vuoto proietta nella mente le immagini d’archivio: le barelle insanguinate, le corse delle ambulanze a sirene spiegate e i volti dei disperati che si trovavano  lì alle 10.25 di un giorno d’inizio estate del 1980. L’Italia non s’è destata da allora, le vittime rimangono senza giustizia e i loro famigliari senza il dovuto rimborso dei danni. La stampa ne dà conto: “La misura annunciata non è entrata nel pacchetto sicurezza del governo Letta”. Quel 2 agosto del 1980, Enrico Letta aveva ancora tredici anni, ne avrebbe compiuto quattordici circa due settimane dopo.

Troppi ricordi per una fermata, ma il treno è così: permette di ascoltare i propri pensieri e leggere quelli di qualcun altro; è un’incubatrice in cui la tranquillità ha sapore di privilegio. Chilometro dopo chilometro ci si accorge di una realtà che la vita quotidiana nasconde dietro la tecnologia e l’abbattimento delle distanze, dietro appuntamenti fissati nei tablet, pranzi di lavoro consumati con il cronometro e i premi di produttività da raggiungere anche a costo di dormire tre ore a notte. Perché la velocità aumenta i ricavi, ma ammazza i pensieri. È un doping virtuale che disumanizza l’umano.  E allora il convoglio fa respirare, le ore di viaggio sono tante, forse troppe, ma hanno l’indubbio merito di purificare la mente, anche a costo di stancare il corpo.

Perché la mente può dar retta allo sguardo, e lo sguardo passa dalla città, alla cittadina, al paese, alla cascina. Dalle migliaia d’abitanti stretti in condomini di classe A, al nucleo familiare che potrebbe fare comune a sé tanto è lo spazio che lo circonda. È la campagna emiliana. Prima e dopo Bologna. Le cascine che sorgono nei campi di grano fanno pensare a Stonehenge o ai Moai dell’Isola di Pasqua. Sembrano essere nate con il paesaggio, sono perfette nel ruvido della pietra grezza che le sostiene. Sono come stalagmiti all’aperto, ma sono opera dell’uomo, quando ancora l’uomo sapeva vivere in armonia con la natura.

In quelle cascine c’è la storia del Paese, la storia della terra che l’ha fatto crescere e delle lotte agrarie del primo dopoguerra che l’hanno fatto sperare. Sembra di sentirli quei braccianti della Lega di Resistenza urlare per ottenere il riconoscimento delle otto ore di lavoro. Incantato sulle distese di grano l’occhio scorge il palchetto di legno da dove Giuseppe Massarenti arringava le folle. Le cascine. Sono le mura che resistono e quelle che crepano a esaltare i ricordi. In quei campi non c’è nulla di nuovo, tutto è immobile da anni. Non si vedono automobili né altri mezzi di locomozione a motore. Ci si aspetta di veder sbucare un aratro tirato da un cavallo da un momento all’altro. Invece è tutto statico, riposato. Il finestrino diventa una cornice in cui si alternano visioni simili ai capolavori dei Macchiaioli.

È fiacco l’attraversamento da Nord a Sud. Dall’ipervelocità del mondo alla sua più anacronistica lentezza. Il Paese a due velocità, uno e bino, visto da dentro tante scatole di ferro che lo attraversano.  I  treni notte. Poco più di un anno fa si chiudeva la battaglia civile del personale di servizio licenziato da Trenitalia. Fra gli ottocento in tutta Italia, la cronaca ricorda i cinque che a Milano hanno occupato la torre faro della stazione Centrale per 192 giorni. Stanislao, Rocco, Carmine, Oliviero, Giuseppe. In cima da dicembre a giugno. Oggi hanno riavuto il loro lavoro e ristabilito la verità su quella vicenda. Dicevano che quei treni viaggiavano vuoti, che non servivano più a nulla e che si poteva viaggiare con le Frecce. Non è così. Di gente a bordo del 795 ce n’è tanta. A Firenze, la fermata più lunga, salgono così tante persone che in molti sono costretti a dormire nel corridoio, alcuni addirittura salgono sui portapacchi come fossero delle amache.

Da Firenze gli accenti tendono sempre più al Sud, è una progressione proporzionale alla direzione di marcia. Dai vari scompartimenti si sentono le note dell’ospitalità campana. «Signora gradisce ‘na tazzulella e ccafè? È caldo, non faccia complimenti. Vuole un panino?». L’orologio segna le 19.30, ma la litania, che durerà fino alle undici, impone una domanda banale, alla quale, però, è sempre difficile rispondere: perché in treno si mangia continuamente? In fondo si sta fermi, le energie che si consumano sono un quinto rispetto a quelle bruciate nella vita di tutti i giorni.

«Ca-du-ta mas-si. Papà che vuol dire caduta massi?». Alex ha iniziato a leggere da poco e sillaba qualsiasi scritta gli capiti sottocchio. È la settimana enigmistica del padre che il bambino sfoglia e recita, in orizzontale e verticale, con voce acuta e una erre moscia da vero aristocratico. «Basta Ale, cerca di dormire». «Un’altra barretta?». «No, ora si dorme». Youssef è crollato già da un po’ in un sonno nervoso, ritmato da calci e lunghi, incomprensibili, discorsi. Prima di addormentarsi i due hanno parlato delle rispettive famiglie: Alex dei parenti dell’Est: la zia Julia, il nonno Kiril, l’amica della madre, Masha. Yussef schierava in campo una generazione infinita: Mohammed, Amid, Nunsur, Wajid. «Che bei nomi!». Anche la paura della diversità, come il razzismo, è una cosa da grandi, a quanto pare. Basterebbe solo il primo di quei nomi a creare allarme in uno scalo aeroportuale; per un bambino è solamente un bel nome. Niente di più, niente di meno.

Roma Tiburtina. Si scende per un quarto d’ora abbondante a sgranchirsi le gambe e fare il pieno di nicotina. C’è chi con il mozzicone della prima si accende la seconda sigaretta. È tutto un distendersi di gambe, spalle, colli, schiene. Le domande si sprecano: «Siamo in orario? Lei dove va? ». La migliore la fa un ragazzo sui ventidue anni: «Ma non c’è un treno diretto per le isole Eolie?». Certo, come no? C’è la tav Torino-Filicudi e quella Roma-Salina. Il giovane avrà una piacevole sorpresa nel suo tour isolano, scoprirà le meraviglie di luoghi incontaminati. Senza strade, con dieci auto per ogni isola e con i muli che portano l’acqua fin dentro casa. Il suo quesito rimane senza replica, ma qualcuno si guarda negli occhi sorridendo furtivamente. Il capostazione fischia. Ora sarà vero sud.

Le pianure diventano rilievi, le convessità delle gallerie prendono il posto del cielo aperto, i binari sono quelli del vecchio sistema ferroviario. A sud di Napoli l’Alta Velocità non arriva. La lotta per i treni notte si ripresenta in una semplice equazione: Milano-Napoli, quattro ore. Napoli-resto del Sud, dalle sei alle sette ore. Meglio un viaggio unico che cambiare. Meglio spendere sessantanove euro per quindici ore che duecentoventi per dieci. Meglio non trasbordare grosse valigie e rischiare di perdere la coincidenza. L’Italia dopo Napoli è più lenta. Le stazioni sono quelle di passaggio. Alcune sono rimaste quelle che erano anni fa. Luoghi di nessuno, luoghi di transito. È una questione infrastrutturale, non si possono far viaggiare treni da 300chilometri orari su binari che sopportano una velocità massima di 130. Il concetto è più che giusto; il perché quei binari non vengano “aggiornati” nonostante i continui proclami, rimarrà un mistero.

«Bella la Calabria». Anche adesso Youssef sorprende, grida un concetto che gli adulti ricordano a bassa voce nei loro discorsi solo per due mesi all’anno: quelli estivi. Alex lo guarda e gli sorride. «E perché non vieni con noi?». «Perché noi stiamo andando in Sicilia a… mamma come si chiama quel posto?». «Sciacca». Ancora la strada è lunga, ma Youssef inizia a chiedere incessantemente quanto manca all’arrivo. A Lamezia Terme albeggia. L’odore del caffè caldo che non si sa da dove possa venire, invade il corridoio sempre più vuoto. È un aroma tipico del vecchio Espressone notturno. C’è chi sostiene che si possa rinunciare anche all’acqua, ma non al caffè del primo mattino. «Altrimenti non riusciamo a svegliarci e andiamo a finire al capolinea», racconta una signora di Firenze ai propri compagni di viaggio.

Le fermate sono brevi e ora si vede il Tirreno e le distese di fichi d’India lungo tutta la costa. Si scorgono le case vista mare ammassate lungo la tratta dei binari, si pensa alla speculazione edilizia, ai condoni selvaggi e alla deturpazione del territorio, ma solo per un po’. Il resto è fascino e contraddizioni. È montagna a sinistra e mare a destra. Sono odori che possono sentirsi solo qui, dove il sole asciuga la rugiada come in nessun altro posto.

A destinazione sembra di essere arrivati in un altro mondo rispetto alla partenza. E invece è sempre Italia. Il divario temporale sembra insormontabile, un anno per ogni chilometro di distanza. Da Milano a Reggio Calabria ce ne sono milletrecento.
Milletrecento pagine di un libro letto e riletto, di cui si conoscono a memoria i paragrafi, ma che non finisce mai di sorprendere. Perché il finale muta sempre. Youssef e Alex si sono salutati con un abbraccio e un sorriso. I loro genitori con uno sguardo di fiducia per il loro futuro. Il pavimento al binario è rovente. Alla stazione d’arrivo non ci sono altoparlanti, né pubblicità mandate in loop su maxischermi. C’è la Costa Viola a perdita d’occhio e le isole Eolie sullo sfondo. Chissà quando arriverà quel tipo che voleva il collegamento diretto. Chissà quando Youssef farà il suo primo bagno a Sciacca. Chissà se al ritorno riabbraccerà il suo nuovo amico Alex.



Lascia un commento