Aspettando Ahmed

Nella giornata mondiale delle persone scomparse, la storia di un’attivista delle Isole Maldive svanito nel nulla tre anni fa

di Lorena Cotza

Ogni mattina Aminath pulisce la stanza del figlio. Prepara il letto, spolvera i libri. Guarda le sue foto appese alle pareti. E aspetta. Non ha più sue notizie da tre anni, ma la speranza resta: magari suo figlio Ahmed tornerà stasera, magari domani. O magari l’estate prossima. E quando arriverà, la sua stanza sarà pulita come quando l’ha lasciata.

Ahmed Rilwan è un giornalista delle Maldive, che ha denunciato gli scandali di corruzione, le violazioni dei diritti umani e la crescente influenza dell’estremismo islamico nel suo Paese. Prima della sua scomparsa, lavorava per il giornale indipendente Minivan News. Era famoso per le sue coraggiose inchieste e le sferzanti critiche dei politici locali.

Le ultime tracce che si hanno di Ahmed risalgono all’8 agosto 2014. All’una di notte, le telecamere di sicurezza lo ripresero mentre tornava verso casa, sul terminal del traghetto che porta dalla capitale Malé all’isola di Hulhumale. Indossava una maglia e dei jeans neri, e uno zainetto.

Ahmed viveva da solo: nessuno si accorse che quella notte non tornò a casa. Quattro giorni dopo, in seguito a innumerevoli chiamate senza risposta, la famiglia denunciò la sua scomparsa alla polizia. Ma i primi agenti arrivarono alla casa di Ahmed solo 29 ore dopo, e aspettarono altri undici giorni prima di controllare il suo ufficio. Chi voleva far sparire le tracce del giornalista ebbe tutto il tempo per farlo.

Quando i familiari e gli amici di Ahmed si resero conto che le autorità non avevano alcun interesse a far luce sulla verità, iniziarono a setacciare l’isola alla ricerca di qualche indizio. Parlando con la gente del quartiere, scoprirono qualcosa che la polizia gli aveva volutamente tenuto nascosto: la notte dell’8 agosto, i vicini di casa di Ahmed sentirono delle urla e intravidero un uomo puntare un coltello contro un altro uomo, per costringerlo a entrare in macchina.

I testimoni non riuscirono a vedere il viso della vittima: notarono solo che indossava abiti scuri e uno zainetto. Chiamarono immediatamente la polizia per denunciare il sequestro a cui avevano assistito. Gli agenti trovarono un coltello, caduto a terra durante la colluttazione, ma archiviarono il caso senza aprire un’indagine.

E furono sempre i familiari a trovare le ultime immagini di Ahmed, nei filmati delle telecamere di videosorveglianza del porto, anche se nel verbale la polizia aveva affermato di averli controllati senza alcun risultato.

Alcuni mesi dopo, l’ong Maldives Democracy Network– insieme a un’agenzia investigativa britannica – pubblicò un report in cui affermava che nel filmato si vedevano due uomini sospetti che seguivano e sorvegliavano Ahmed.

Nonostante questi gravi indizi, solo il 2 aprile 2016 la polizia concluse che Ahmed era stato rapito, probabilmente da una gang di integralisti chiamata Kuda Henveiru, e affermò di aver arrestato due sospetti già nel 2014, ma di averli dovuti rilasciare per mancanza di prove.

Secondo le dichiarazioni ufficiali, i due sospetti hanno lasciato le Maldive e sono andati a combattere in Siria, dove sono morti in battaglia. Altri due sospetti furono arrestati nell’aprile 2016 ma rilasciati dopo appena quattro mesi.

“La polizia ha sempre negato di avere informazioni sufficienti sul caso, e ha aspettato più di 600 giorni prima di ammettere che si trattava di un sequestro”, racconta Safa Shareef, avvocata dei diritti umani che aiuta la famiglia di Ahmed nella loro battaglia per ottenere verità e giustizia. “Ma è evidente che sappiano qualcosa. E dopo tre anni, la famiglia non vuole più sapere i dettagli del sequestro, dove è stato portato il figlio o chi ha dato l’ordine di rapirlo. Vuole solo sapere se Ahmed è ancora vivo o no. Perché come può una madre avere pace se non sa se piangere un figlio morto, o se continuare ad aspettare il suo ritorno?”.

Il mese scorso, durante una conferenza stampa sulla crescente violenza nel Paese, un ministro ha citato Ahmed Rilwan nella lista delle persone uccise: “Il governo sa qualcosa evidentemente, ma la polizia nega. Se almeno sapessimo con certezza che Ahmed è stato ucciso, almeno la famiglia potrebbe fare il rito funebre. Così invece restiamo in un angosciante limbo” aggiunge Safa.

Nonostante la mancanza di supporto da parte delle autorità, la famiglia e i colleghi di Ahmed non hanno mai smesso di cercare la verità.

Hanno tappezzato il Paese con le sue foto, lanciato il sito web Find Moyameehaa, in riferimento all’account Twitter di Ahmed (@Moyameehaa, uomo pazzo), e organizzato numerose marce di protesta.

Lo scorso dicembre la famiglia di Ahmed ha inoltre presentato un ricorso contro la polizia, facendo appello alla legge sul diritto all’informazione sancito dalla Costituzione delle Maldive, per poter accedere al dossier ufficiale. Ma le autorità continuano a dire di non poter rivelare nulla per non compromettere le “indagini”.

“Lo scorso 8 agosto siamo scesi in piazza, a tre anni dalla scomparsa di Ahmed”, racconta Safa. “Stavamo protestando in modo pacifico quando siamo stati aggrediti dalla polizia: hanno usato gas lacrimogeni e hanno arrestato otto manifestanti. Io e i miei colleghi siamo corsi alla stazione di polizia per assistere chi era stato fermato, e ora ci stiamo battendo per dimostrare che si tratta di arresti assolutamente ingiustificati. Invece di trovare chi ha fatto sparire Ahmed, la polizia dà la caccia a chi cerca la verità”.

In un articolo pubblicato in occasione del secondo anniversario del sequestro di Ahmed, il blogger Yameen Rasheed scriveva:

“La madre di Rilwan ha educato un figlio gentile e pieno di compassione. Avrebbe meritato di godersi una serena vecchiaia, non di essere colpita con il gas lacrimogeno, essere aggredita dalla polizia, ed essere costretta ad elemosinare qualche informazione sul figlio. Ma nonostante questo, la famiglia di Rilwan – e sua madre in particolare – sono un meraviglioso esempio di coraggio. Si sono rifiutati di soffrire in silenzio, e hanno trasformato il loro dolore e la loro pena in azione. Dopo aver visto i loro straordinari, sovrumani sforzi in questi ultimi due anni, sono convinto che forse il coraggio sia qualcosa di genetico”.

Yameen era un caro amico di Ahmed e aveva partecipato attivamente alla campagna per ritrovarlo. Nel suo blog The Daily Panic, criticava e ironizzava sulle potenti élite politiche, religiose ed economiche del Paese. E come Ahmed, negli anni era diventato il nemico di tanti.

Nel 2015, era stato arrestato e imprigionato per tre settimane – insieme ad altri 200 attivisti – per aver partecipato a una manifestazione pacifica nella capitale.

Il 23 Aprile 2017, il corpo di Yameen fu trovato nelle scale del suo appartamento a Malé. Era stato accoltellato e morì a causa delle ferite riportate, poco dopo essere stato ricoverato in ospedale. Da anni, Yameen riceveva minacce di morte, che aveva regolarmente denunciato alla polizia, senza però ottenere alcun tipo di aiuto.

Le Maldive, che nell’immaginario collettivo sono solo una lussuosa meta turistica con spiagge paradisiache, nascondono un lato oscuro che la maggior parte dei turisti non vede.

Dopo decenni di dittatura militare, nel 2008 – durante le prime elezioni libere – arrivò al governo Mohamed Nasheed, un ex prigioniero politico. Ma lo spiraglio di democrazia si chiuse molto presto. Nel 2012, Nasheed fu cacciato via con un colpo di stato e dopo 18 mesi salì al potere Abdulla Yameen, fratellastro dell’ex-dittatore.

Da allora, nelle Maldive si assiste a una crescente erosione delle libertà e dei diritti civili. I giornalisti indipendenti denunciano sempre più minacce e aggressioni, e gli attivisti per i diritti umani devono spesso muoversi in segreto per proteggersi dagli attacchi delle autorità, della polizia, delle gang e degli estremisti islamici.

In una petizione lanciata su Avaaz, il fratello di Ahmed scrive:

“I gruppi di estremisti sono legati a doppio filo con molti politici al governo, ed è per questo che la polizia non si è mossa per scoprire la verità. L’unica cosa che potrebbe far agire le autorità delle Maldive è la pressione della comunità internazionale sul settore del turismo, che porta miliardi di dollari”.

Le voci libere che denunciano la corruzione e gli abusi del governo – come quelle di Ahmed e Yameen – rischiano sempre più di essere silenziate. Ma le parole che Ahmed e Yameen non hanno più potuto scrivere ora sono urlate a gran voce nelle marce di protesta.

Come dice Safa, “Se le autorità pensano che Aminath smetta di cercare il figlio e rinunci a sapere la verità, se pensano che riusciranno a fermarci e farci desistere, si sbagliano di grosso.”