Rohingya, i generali danno i numeri

L’esercito del Myanmar reprime senza pietà la minoranza musulmana

di Emanuele Giordana, tratto dal suo blog Great Game

Tra i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia Reuters di aver trovato venerdi sulle rive del fiume Naf, che divide il Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a non avercela fatta.

Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il “venerdi nero” scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica.

Non si tratta di una dichiarazione “ufficiale” ma di un post sulla pagina facebook di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya ridotta a qualche “like” o a condivisione sul social più diffuso.

Il bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto così come i 3mila scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti dunque tra cui, dicono i militari, 29 “terroristi”. E poi ben 38mila profughi – la cifra aumenta di ora in ora – che si aggiungono agli 87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati interni).

I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva contati “solo” 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi: secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono il piè fermo.

Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello Ariful se non riescono ad attraversare il fiume – a nuoto o con barche dove è più largo – mentre altri aspettano il momento buono, quando si può sfuggire alle guardie di frontiera.

Quel che è certo è che indietro non si può tornare. I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza musulmana che, prima del 2012, contava circa un milione di persone.

Adesso, di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che di immigrati bangladesi.

Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo spettro di uno “stato islamico”, incarnato da un gruppo secessionista armato responsabile degli attacchi.

E se anche i residenti locali non musulmani (11mila) sono oggetto di “evacuazione” dalle zone sotto tiro, Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi. Reazione troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale, o un piano di eliminazione?

«Siamo ormai in una nuova fase – dice a Radio Popolare il responsabile Asia di Hrw – e siamo convinti che dietro alle operazioni dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitamente la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna militare contro gli insorti».

Se la diplomazia resta a guardare, i vicini non sono da meno. La Thailandia si richiama al principio di “non ingerenza”. Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e settimana prossima il premier indiano Modi sarà in Myanmar, paese strategico per l’economia del colosso asiatico.

La decisione ha però suscitato polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato con l’Acnur (14mila persone).

C’è poi un altro colosso – la Cina – che difende le ragioni del governo birmano a cominciare dalle riunioni del Consiglio di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel Rakhine, lo Stato dove vive questa scomoda minoranza.

E’ interessata al porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, nella Cina del Sud.

C’è un altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo progetto One Belt, One Road, meglio noto come “Nuova via della seta”.

E per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto uno dei bastioni del nazionalismo identitario locale. E’ il partito che vorrebbe nel Rakhine lo stato di emergenza.