La nuova legge contro la violenza sulle donne in Tunisia è un passo importante, ma non sufficiente perché non scalfisce le strutture patriarcali ed economiche che opprimono le donne
Di Arianna Taviani per Global Project
Dopo una settimana di accesi dibattiti in seno al parlamento tunisino, il 26 luglio, il progetto di legge organica n. 2016-60 per il contrasto alle violenze di genere è stato adottato all’unanimità dai 146 deputati presenti. Poco più tardi, l’11 agosto, il Presidente della Repubblica, Béji Caïd Essebsi, ha posto la sua firma al testo: la Tunisia si dota, così, di una legge che disciplina le modalità di contrasto e prevenzione della violenza sulle donne.
Per ora, l’unica versione consultabile del testo di legge è quella in arabo, per la versione ufficiale in francese sarà necessario attendere alcuni mesi. Stando alle fonti, sembrerebbe che le disposizioni del testo non si limitino a considerare le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche, economiche e politiche, contemplando anche l’attuazione di misure di prevenzione e assistenza alle donne colpite dalla violenza, da realizzare attraverso programmi d’informazione negli spazi pubblici.
Di grande rilevanza è l’abolizione della norma contenuta nell’odioso articolo 227 bis del Codice penale che prevedeva la cessazione del procedimento penale, in caso di stupro di una minorenne, se l’uomo autore dello stupro avesse sposato la ragazza colpita dalla violenza, istituto giuridico quasi identico a quello del “matrimonio riparatore”, abrogato in Italia nel 1981.
La nuova legge penalizza le molestie sessuali commesse nei luoghi pubblici, lo sfruttamento delle bambine come aiutanti domestiche e prevede delle ammende per chi discrimini intenzionalmente le lavoratrici riguardo al salario. “Nell’insieme mi sento molto soddisfatta di questa legge” ha dichiarato Monia Ben Jémia, presidente dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates, una delle maggiori associazioni femministe del paese, “è una buona legge”, ha aggiunto, “contempla tutte le previsioni necessarie per lottare efficacemente contro l’impunità e fissa la nozione di prevenzione della violenza”.
Ben Jémia, e tante altre donne appartenenti alle grandi associazioni femministe tunisine (come, ad esempio, l’Association des Femmes Tunisiennes pour la Recherche e le developpement e l’associazione Beity), hanno fortemente voluto questa legge. Il testo è stato elaborato dal ‘Ministero della donna, della famiglia e dell’infanzia’, con l’aiuto di alcune giuriste esperte. Frutto della volontà politica di persone in parte legate al partito al potere in Tunisia (Nidaa Tounes), il testo si inscrive nella visione dei “diritti di genere” elaborata a livello internazionale.
Appartenenti all’élite modernista e liberale, gli esponenti di Nidaa Tounes, e l’universo politico che li circonda e sostiene, portano avanti una visione in base alla quale, come afferma Pierre Puchot, la liberazione del popolo “deve avvenire in maniera progressiva ed essere una concessione dall’alto, secondo una tabella di marcia dettata da una classe dirigente che si presenta come un’avanguardia illuminata, garante dell’identità nazionale”.
In altri termini, si presta maggior attenzione all’elaborazione di leggi conformi agli standard europei e mondiali dei diritti, piuttosto che cogliere le istanze delle mobilitazioni sociali che negli ultimi anni continuano a segnare la vita del paese.
Si pensi, ad esempio, alle manifestazioni di protesta che hanno preso di mira i siti di estrazione di gas e petrolio nel sud del paese. Lo scorso maggio il Presidente Essebsi (leader di Nidaa Tounes) ha pubblicamente minacciato di volerle reprimere con l’esercito.
Tuttavia, nonostante il milieu nel quale il testo normativo è stato elaborato, questa legge segna un passo molto importante per la Tunisia, poiché l’emancipazione giuridica, seppur non risolutiva, può essere utile alle donne, strumentale alle loro esistenze, anche se non liberatoria. Le disposizioni contenute nella nuova legge possono avere aspetti protettivi e perfino paternalistici.
Ciò nonostante, l’eliminazione di alcuni istituti giuridici che hanno reso insopportabile la vita di molte, la possibilità di avere uno strumento in più per difendersi dall’oppressione di genere e soprattutto il fatto di nominare la violenza maschile nei confronti delle donne, nelle sue diverse forme, sono tutti elementi che potranno essere d’aiuto alle tunisine. Se si guardano i dati, nel 2010 un’inchiesta elaborata dall’Ufficio Nazionale della Famiglia e della Popolazione (ONFP), prima statistica ufficiale dello Stato tunisino sul tema, ha rilevato che “Il 47.6% delle donne, tra i 18 e i 64 anni, ha dichiarato di aver subito almeno una delle forme di violenza durante la sua vita”.
Le forme di violenza, considerate dal Rapporto dell’ONFP, sono quella fisica, psicologica, sessuale ed economica. Vi si legge ancora: “La violenza fisica è la più frequente, seguita, molto da vicino, da quella psicologica, a seguire quella sessuale e quella economica […]. Il 31,7% delle donne, tra i 18 e i 64 anni, dichiara di aver subito una violenza fisica durante la sua vita”. Sono numeri che hanno scosso l’opinione pubblica. Per questo, nel momento dell’elaborazione della nuova Costituzione, i membri dell’Assemblea nazionale costituente sono stati attenti a sancire l’impegno dello Stato a combattere la violenza nei confronti delle donne. Prova della volontà generale ed unanime di inserire questa disposizione nel testo, è il fatto che essa sia rimasta pressoché invariata nei diversi progetti di Costituzione, elaborati tra il 2011 e il 2014, anno della sua promulgazione.
L’articolo 46 dell’attuale Carta fondamentale tunisina recita, all’ultimo comma: “Lo Stato si impegna a eliminare la violenza nei confronti delle donne”. La nuova legge sembra attuare, dunque, quel principio costituzionale che molte e molti temevano rimanesse lettera morta.
Così, se da un lato il diritto non è nulla più di quanto “è mediamente riconosciuto in una società, in un’epoca, in un luogo” come scrive Silvia Niccolai*, dall’altro “questa medietà tende a lasciare sulla legge un’ombra, e spesso più che un’ombra, di fatica, di sforzo riuscito a metà … il pezzo incompiuto di un lavorio interminato”.
Nelle lotte delle donne, più che in ogni altro caso, la legge può solo intervenire in modo meramente strumentale a rendere meno gravose alcune situazioni dell’esistenza. Il vero lavoro, ciò che realmente può portare e porta a cambiamenti tangibili, è la lotta costante, quotidiana e territoriale, poiché il patriarcato non è un accidente, ma un dato strutturale, l’impalcatura su cui si basano, in varia misura, tutte le odierne società.
Per scalfire la subalternità delle donne è necessario cambiare le strutture economiche e simbolico-culturali dentro cui siamo inscritte e inscritti.
Non è un caso, forse, che alcune delle norme che caratterizzano maggiormente il patriarcato tunisino non siano state toccate dalla nuova legge sulla violenza contro le donne. Rimane invariata, per esempio, la disposizione del Codice dello Statuto Personale (CSP), che stabilisce che “Il marito è il capo della famiglia” e quella, contenuta nello stesso testo, in base alla quale a parità di grado di parentela alle donne spetta sempre la metà della porzione di eredità che spetta agli uomini.
Quanto tempo sarà necessario per arrivare a modificare quelle regole, per ora intangibili e profondamente normative della realtà quotidiana delle tunisine e dei tunisini? Lo scorso 13 agosto, nel suo discorso ufficiale in occasione della “Festa della donna” (che in Tunisia coincide con la data dell’entrata in vigore del CSP), il Presidente Essebsi ha annunciato che è stata creata una Commissione che avrà come obiettivo quello di modificare le regole sull’eredità in senso paritario, sottolineando la necessità di cambiare tutte le disposizioni normative sfavorevoli alle donne.
Queste affermazioni hanno scatenato un ampio dibattito nel paese, andando a toccare uno dei temi più importanti e controversi che attraversano la società tunisina: il ruolo dell’Islam nell’ordinamento giuridico. Il conflitto tra “leggi umane” e norme religiose islamiche, cui rimanda già l’articolo 1 della Costituzione tunisina quando stabilisce che l’Islam è la religione della Tunisia, diventa particolarmente significativo riguardo alla condizione giuridica femminile. Giacché, proprio sul terreno dei diritti delle donne si gioca, talvolta, una battaglia che, lungi dall’avere a cuore la realizzazione della libertà femminile, sembra essere invece segnata dai giochi di potere tra la parte laica e la parte islamica della società.
Dove si colloca, dunque, l’agire dei movimenti delle donne tunisine oggi? La rivoluzione del 2011 sembra aver ridisegnato il paesaggio delle vite e delle lotte femminili. Le donne hanno invaso la scena pubblica con una potenza mai vista prima nella storia del paese: dalle campagne, dalle periferie delle città e dalle università, una nuova generazione di tunisine ha cominciato a ridisegnare la geografia fisica e simbolica degli spazi politici. La rivoluzione ha reso pensabili e possibili pratiche altamente improbabili in tempi ordinari.
A Sidi Bouzid, le donne hanno preso la testa dei cortei per interrare i loro cari e i loro vicini assassinati dagli agenti del regime, mentre abitualmente solo gli uomini sono abilitati ad accompagnare i morti al cimitero.
Attiviste, giovani e meno giovani, hanno passato la notte sotto le tende nelle piazze della Kasbah e del Bardo a Tunisi, nelle fabbriche, nelle università o nei locali delle associazioni, portando avanti scioperi della fame, senza alcuna supervisione maschile. Forti segni di rottura con il passato.
Quello che colpisce maggiormente del nuovo attivismo femminile tunisino è proprio la voce di donne che prima della rivoluzione sembravano non avere visibilità e che oggi, tra battaglie, vittorie e sconfitte, lottano, si oppongono all’oppressione che pesa su di loro e si impongono nella società. Non sono più solo le figlie della borghesia cittadina a combattere pubblicamente contro i diversi aspetti del patriarcato, oggi sono anche le operaie, le lavoratrici delle campagne, le ragazze delle città più disagiate che stanno raccontando e migliorando le loro esistenze. Donne le cui lotte prima del 2011 passavano sotto silenzio, la cui voce non trovava spazio nella narrazione politica collettiva. Se la rivoluzione tunisina è stata rivoluzione reale, saranno loro, non tanto le leggi, a raccontarlo al mondo.
*S. Niccolai, Conflitti per la convivenza, in A. Buttarelli e F. Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Milano, 2008, p. 268.
Foto di copertina: Operaie della fabbrica Mamotex (Mahdia, Tunisia) durante una protesta (Monia Ben Hamadi per Inkyfada)