Un nuovo anno, stessi problemi, stessa voglia di fare meglio
di Alessandro Macchia
Ogni anno è così: il primo giorno entro in aula rabbuiato. I ragazzi mi chiedono il perché. È semplice, rispondo: è cominciata la scuola. Chi non mi conosce, o mi conosce come un professore severo e, almeno a lezione, tutto d’un pezzo (in genere i nuovi arrivati: quelli delle classi prime), mi guarda allibito e stralunato: un professore a cui non piace la scuola?
Mi verrebbe da rispondere che a tanti e tanti professori non piace la scuola. Bisogna soltanto avere il coraggio di riconoscerlo ad alta voce.
È settembre. La scuola inizia e io ho già mal di pancia. Mi sono domandato spesso perché non mi piaccia la scuola.
Dipende forse dalle mie cicliche liti con i colleghi? Ma no! In fondo sono brave persone. È insofferenza verso i ragazzi? Lo escludo: mi vivacizzano le mattinate e, fra un avverbio e un aggettivo, ci facciamo anche delle sane risate. E allora?
L’estate è terminata. I mesi estivi per i professori sono altresì occasione di resoconti talvolta curiosi, talvolta demenziali, talvolta drammatici, sull’anno scolastico appena trascorso. Io sono finanche fortunato: a Carpignano Salentino e a Serrano i genitori ci tengono, i ragazzi sono educatissimi, ogni classe ha più di un’eccellenza.
Al massimo posso raccontare di qualche divertente lapsus che trasforma Caravaggio in Scarafaggio o muta Pirandello in Grimaldello. Ma quando ascolto gli amici, chi al nord chi al centro chi in un altro sud, mi si intristisce l’anima.
La barzelletta, se così la si vuol chiamare, dell’estate viene da un istituto tecnico industriale: l’insegnante scopre che la metà della classe non è in grado di leggere l’orologio con le lancette. Una conseguente ora di lezione a insegnarglielo e la desolante osservazione: “Professo’, s’impiega troppo tempo a capire che ore sono. Lasciamo sta”
E un’altra ora finita nel nulla, se non a riempire le nostre serate agostane. Del resto, l’alternativa a questi argomenti è costituita dalle novità ministeriali.
Perché, vedete, è come nei supermercati: tu vi entri a metà luglio e vi trovi già esposti zainetti e quadernoni. Allo stesso modo, l’ipermercato dei riformatori ministeriali non cessa neanche nei mesi caldi di produrre mostri. Quest’anno è stata la volta della sperimentazione del liceo in quattro anni.
La materia ci riporta crudamente a quanto sopra, alla storia dell’orologio: dovremo dunque dare ragione al ministro che scioccamente vuol esser detto ministra? Con questo stato di cose, non conviene farli andare di meno a scuola e toglierseli davanti? Ma dar ragione vuol dire rassegnarsi.
E noi che abbiamo vissuto, fra le altre cose, il grande passaggio del buon vecchio Magistrale da ciclo quadriennale a ciclo quinquennale, non vogliamo rassegnarci alla cattiva minestra della ministra. Rimaniamo intimamente infedeli. Io, personalmente, me lo sarei anche aspettato un passo del genere.
Forse l’avrei pure auspicato. Ma nell’ottica di un prolungamento del ciclo di mezzo, quello delle secondarie di I grado, da tre a quattro anni. Ho le mie idee. Ma devo molto anche a un’acuta riflessione di Maria Adele Campi, la dirigente scolastica di Martano, la quale, alcuni anni or sono, confutava con vigore la visione diffusa della scuola “media”: ovvero di un ciclo scolastico di passaggio, transitorio, quasi un tassello ininfluente nel lungo percorso scolastico dei ragazzi.
Tutt’altro: lo diceva decisivo. Lo confesso: quella volta, a quelle parole, mi sentii gratificato di un ruolo che altrimenti sentivo secondario a quello degli stessi insegnanti di scuola superiore. Oggi la avverto tutta l’importanza di questo trait d’union, ed anzi vivo come una frustrazione l’abbandono dopo solo tre anni dei miei ragazzi, dopo che hanno acquisito un certo livello di eccellenza, senza avere la possibilità di consolidare quei raggiungimenti.
Vorrei dargli ancora qualcosa di mio, vorrei avere dell’altro tempo da dedicare loro, per renderli davvero criticamente autonomi e responsabili. Sento, in definitiva, che qualcosa di incompleto al limitare della licenza media rimane. Perché allora non è mai stata presa in considerazione la possibilità di un quadriennio intermedio? Si potrebbe fare. Ma non si farà. E allora, con gli amici colleghi mi stanco anche di parlare di proposte che la politica sollecita ma poi snobba.
E cambio argomento. E mi metto a parlare di quell’altra notizia dell’estate. Le rivendicazioni delle maestre delle primarie a un più equo trattamento economico.
Mi piacciono le maestre delle primarie. Mi piacciono perché forse sono le uniche che fanno davvero il loro lavoro con entusiasmo. Le vedi attivissime fin dai primi giorni, per rendere più colorata e accogliente possibile la scuola ai bambini.
E vorremmo citare il poeta Wystan Auden, che maestro elementare lo era stato, per dire che «non vi occorre vedere che cosa uno fa, per sapere se quella è la sua vocazione: vi basta soltanto guardare gli occhi e quello sguardo attento sull’oggetto». Li guardo, gli occhi di Chiara e Mariolina, di Enza, Candida e Marilú; e poi quelli di Patrizia e di Anna, che per tutta l’estate non hanno smesso di arricchire i loro blog personali con schede tematiche ad uso dei colleghi di tutta Italia.
Come dare torto delle loro rivendicazioni? Dovrebbe esistere un metro di misura per pesare lo zelo e la passione di queste donne; e su quel metro premiarne onestamente il merito, a prescindere dallo stesso immane volume di ore di insegnamento e programmazione, e a dispetto della partecipazione a banali corsi di formazione.
D’altronde, a meno che non vi troviate nella Russia sovietica e non vi chiamiate Stachanov, come negare che il principio del merito abbia a che vedere con la qualità, e non con la quantità?
E se questo metro esistesse, si scoprirebbe che via via che si sale nella scala dei cicli formativi, decresce la voglia di fare dei professori, la passione, il senso della “missione”, fino ad arrivare all’amara realtà di un mondo accademico, l’ultimo del percorso, così autoreferenziale che ha eletto lo sbadiglio a sua norma, la ricerca a suo alibi, la burocrazia a suo diletto.
Cartacce, assemblee interminabili, funzioni di funzionari strumentali. La scuola gira bene anche senza. Ci vuole solo un po’ di entusiasmo diffuso.
Ecco, ora ho capito perché non mi piace la scuola. Da bambino mi hanno insegnato a leggere l’orologio, ma non mi hanno mai spiegato perché, quando siamo in riunione, le lancette dei minuti non si muovono mai.