La città contesa, tra passato e presente, con un futuro incerto
di Linda Dorigo
C’è un detto in Medio Oriente che recita più o meno così: “Un uomo che nega la propria origine non ha radici e non ha valore”.
Questa lezione è ancora lì, in Kurdistan, scritta sui libri di scuola, nei villaggi abbandonati, conservata sulle montagne, impressa nella memoria delle comunità, a testimoniare una storia da cui si sarebbe potuto imparare, molto.
Ma l’attualità non concede tregua. Ricca e sofferta, Kirkuk non riesce a levarsi di dosso lo stigma di città contesa fra arabi e curdi.
Su Kirkuk pesano più di tremila anni di storia. La Gerusalemme dei curdi, la città dove per secoli arabi musulmani, curdi sunniti e sciiti, turkmeni, assiro- caldei, ebrei e cristiani ortodossi hanno vissuto insieme dando vita a un luogo sospeso nel tempo, ricco di spiritualità, cultura, lingue e tradizioni come pochi al mondo.
Di quel variegato universo è rimasto poco. Quando pensiamo a Kirkuk immaginiamo le fiammelle dei pozzi petroliferi, l’aria torbida, la polvere. Nessun segno ci riporta al suo passato più lontano.
La cittadella, antica capitale assira di Arrapha, oppure la chiesa rossa con i suoi mosaici pre-islamici, o ancora le mura difensive del periodo ottomano non bastano.
Persiste l’amara sensazione di un luogo stanco di lottare, storicamente conteso per le risorse del sottosuolo, e violentato dall’ennesima guerra fratricida che in queste ore sta rimettendo in discussione accordi e conquiste.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’impero britannico e quello ottomano occuparono Kirkuk fino al 1926, quando la città venne inserita nel Regno d’Iraq. La monarchia di re Faysal I fu rovesciata da un colpo di stato del generale e politico iracheno Qasem, che diede vita alla Repubblica dell’Iraq.
Il punto di non ritorno è rappresentato dagli anni ’30, quando venne scoperto il primo giacimento petrolifero di Baba Gurgur e l’Iraq Petroleum Company-ICP di lì a poco cominciò le esportazioni.
Il petrolio modificò rapidamente l’anima, anche demografica, della città. Si iniziarono a costruire nuove abitazioni per i curdi e gli arabi che arrivarono a Kirkuk per lavorare nei campi di petrolio. La loro presenza sconvolse gli equilibri etnici, facendo scendere la percentuale – fino ad allora maggioritaria – dei turkmeni. Secondo il censimento del 1957, a Kirkuk c’erano 37,63% turkmeni, 33,26% curdi, gli arabi e gli assiri costituivano meno del 23%.
In seguito alla prima guerra curdo-irachena, l’11 marzo 1970 furono siglati gli accordi di pace che sancirono l’autonomia della regione curda. Lo statuto venne ben presto rivisto e modificato a favore di Baghdad, che escluse dall’autonomia le zone di Kirkuk, Khanaqin e Sinjar.
Kirkuk cadde sotto il controllo del governo centrale e Saddam Hussein, salito al potere nel 1979, inasprì la campagna di arabizzazione che prevedeva il massiccio stanziamento di arabi iracheni ed egiziani nelle zone petrolifere di Kirkuk.
Un metodo più sottile fu quello di trasferire i dipendenti pubblici curdi dal Kurdistan all’Iraq meridionale. Vennero annullati gli studi in lingua curda nelle scuole, e anche i nomi degli antichi villaggi curdi furono cambiati a favore di quelli arabi.
Kirkuk, che divenne al-Ta’mim (nazionalizzazione), designava solo il capoluogo, volendo così dimostrare che la maggioranza della popolazione era araba, e che le richieste curde sulla città erano prive di fondamento.
La campagna di arabizzazione aprì la strada al genocidio con la campagna Al-Anfal, condotta tra il 1986 e il 1989 dal regime Ba’ath, nei confronti delle popolazioni curde e non arabe del nord dell’Iraq.
Attacchi, bombardamenti, armi chimiche, distruzione sistematica e deportazioni di massa. Più di 180 mila civili persero la vita e quasi 4.500 villaggi furono rasi al suolo. Fino all’invasione americana dell’Iraq, e nonostante l’evidenza dei massacri come quello di Halabja (marzo 1988, 5-10 mila morti), l’arabizzazione non si è mai fermata.
Appena insediati a Kirkuk, gli americani, sotto la supervisione di Paul Bremer, hanno voluto un consiglio comunale e provinciale che tenesse conto della variegata identità etnica della città.
L’esperimento americano, se nei fatti fece sedere allo stesso tavolo comunità ormai entrate in collisione tra loro, non rappresentò una valida alternativa di governo. Gli abitanti di Kirkuk, già stremati per le inarrestabili violenze e soprusi, dovettero fare i conti con un’escalation di attentati che colpirono luoghi pubblici e di culto.
Fino al 2014, quando entra in scena lo Stato islamico. Allora l’esercito iracheno scappa e i curdi prontamente si insediano in città, difendendola dagli attacchi terroristici.
Le carte in tavola sono cambiate velocemente dopo il referendum per l’indipendenza dello scorso 25 settembre. Il presidente Barzani non ha fatto passi indietro e il premier iracheno al-Abadi, forte dell’alleanza con Teheran e Ankara, ha avuto campo libero per mettere in pratica quello che ha sempre voluto: riprendersi Kirkuk e i territori contesi.
Il Kurdistan, sconfitto nell’eterno duello con Baghdad e costretto a rientrare entro i confini antecedenti al 2014, rischia di perdere quello slancio epico e nazionalistico che lo ha reso patria per tanti curdi apolidi. E pensare che per loro era quasi fatta.
Kirkuk, presa, usata, gettata, ripresa, e martoriata, era tornata, come in un sogno, nelle mani dei valorosi peshmerga che l’hanno difeso fino alla morte.
Fino a pochi giorni fa, quando l’esercito di Baghdad, insieme ai miliziani sciiti a guida iraniana al-Shaabi sono entrati in città e i peshmerga hanno abbandonato il campo. Senza guardarsi indietro.
Senza una parola per lei, Kirkuk, che non ha più niente da offrire, tranne milioni di barili di petrolio grazie ai quali sentirsi ancora affascinante.