Trilogia boliviana – Enea

Un viaggio in tre puntate. Tre nomi. Tre corpi. Tre punti cardinali. Tre deviazioni.

Di Gabriella Ballarini

Santa Cruz de la Sierra, esterno giorno.

Si prende un’auto e si va a sud dell’anello sette della città.
Trenta, forse quaranta minuti di strade e altre strade, di terra e d’asfalto, o di cemento, che qui in Bolivia non si sa mai, si dice cemento e si vedono quelle lastre che si congiungono con la polvere in mezzo e i blocchi gialli incollati per segnare gli svincoli e poi le triple file che sfrecciano e dentro l’auto i discorsi su Palmasola, carcere maschile e femminile, luogo mitologico, luogo reale nel quale ci stiamo dirigendo.
L’ingresso è diviso in due, maschile e femminile e una signora dai capelli castani e riccioli, come li portano le nonne la domenica per andare alla messa, arriva per accoglierci. Spunta appena da uno di quei mototaxi rossi e ci grida di aspettare che deve andare a fare delle fotocopie.

Il sole trafigge ogni fibra dei nostri vestiti puliti, avvolge le bancarelle di frutta e biscotti, schiaffeggia i venditori di carta igienica o ciabatte infradito e scalda anche la terra delle strade e il rumore sembra amplificare il caldo e senza accorgercene siamo in coda.

“Sono tutti con me” grida la signora e ci implotona. Entriamo e un altro controllo ci aspetta, in ordine, uno per uno fino ad arrivare a sette. E poi: “lasciate qui gli occhiali da sole” e poi il timbro sul braccio destro e poi P4 la zona dove andremo. E si cammina con il braccio femminile del carcere a sinistra, la panetteria a destra e gli occhi degli abitanti che guardano e indagano tra i nostri capelli biondi, i pantaloni lunghi, gli occhiali che nascondo gli occhi azzurri. E lentamente appaiono tutte le foto che non si possono scattare, il filo spinato che uccide il cielo azzurro, i sacchi degli aiuti appesi ai reticolati e divisi fedelmente per colore, il bambino che saluta il padre e torna a casa, file di gente che attende, file di fili che stanno lì e noi passiamo ad un terzo controllo e un timbro nuovo e la polizia che ci dice: “si esce solo se avete il timbro, senza timbro da Palmasola non si esce più, ve ne potete stare lì a dormire.”
E ancora file di uomini con la carriola, carriole rosse e anche verdi con dei numeri sopra, tutti diversi. Eccoci dentro. Non ci sono sbarre, non ci sono celle o almeno, ci sarebbero anche, ma sono diventate altro. Palmasola è una città, con le sue regole e i suoi regolamenti. Un città circondata da un muro che all’esterno è bianco e all’interno è di tanti colori, ma tutto il perimetro non lo puoi seguire, come nelle città, se ne vede un pezzo, un pezzo alla volta.

E qui arriva Enea, italiano, la sua storia è aggrovigliata come i terrazzi del P4, come chi dorme poco la notte e la mattina controlla di non morire attraversando la strada.

Dice che l’altro giorno hanno ammazzato un uomo a bastonate, una bastonata dopo l’altra finchè il suono si faceva sordo e il colpo finale alla testa e il suono allora era chiaro, di quando si rompe un cranio, proprio quel suono lì. Qui ne ho viste tante, ripete Enea.
Passiamo dal quartiere degli artigiani del legno, poi da quelli che lavorano il cuoio, poi dal grande mercato coperto e saliamo anche al piano superiore. Da lì si vede l’immensità di Palmasola, la grandiosità di quest’assurdità, la maestosità di questa società parallela dove il crimine è timbrato addosso come lo è il permesso di uscire, un timbro indelebile, un tatuaggio, un intaglio dedicato al santo protettore dei narcotrafficanti.
Un ragazzo colombiano si avvicina, parla a voce bassa con il suo accento della parte interna del Paese, quella porzione di Colombia nella quale la fine delle parole diventa una cantilena e l’inizio un sussurro.
Racconta di moglie e figli e si continua a camminare fino a che si arriva nel campo da calcio e attorno le villette di legno e mattoni e i lunghi fili con le magliette stese, quelle delle squadre, che ognuno c’ha la sua e cambiano colore, come là fuori, dove si leggono i cartelloni che raccontano a tinte forti di questa Bolivia che sta cambiando. Dentro Palmasola il tempo è immobile, le fogne circolano tra i viottoli e le persone attraversano le strade ammiccando, tra strette di mano e pacche sulle spalle, seduti come in un perfetto calcolo, si aspettano, si parlano, ti circondano e ti sfiorano senza che nulla sia casuale. Incrociamo anche delle celle vere, con le braccia che escono dalle sbarre, come fossero in punizione e le mani cercassero la luce, ma nessuno ci dice chi sono e perché ci sia questa galera nella galera e noi non domandiamo. Ascoltiamo anche un predicatore evangelico, che ci dicono essere uno stupratore seriale e invece qui ha il microfono e l’amplificatore e parla di Dio e parla del regno dei cieli.

Enea nel frattempo ci scorta fino alla fine del giro, in poche ore non si capisce nulla del carcere più pericoloso della Bolivia, non si capisce chi li controlla quei detenuti se la polizia non entra, se rimane fuori e delega alle cosche la funzione di amministrazione e gestione degli spazi e delle persone. Non si comprende chi siano le mogli e chi le prostitute, del perché anche i figli di pochi mesi vivano lì se la legge lo vieta.
Un discorso del 2015 del Presidente Morales diceva che la giustizia era il capitolo cruciale per il futuro. Cruciale. Dopo che Papa Francesco strinse le mani attraverso le sbarre, il mondo era definitivamente messo a parte di questo girone infernale, di questo buco nell’esistenza degli umani, ma forse non basta nemmeno questo, nemmeno sapere basta.

Enea saluta con un abbraccio vigoroso. “Oh, non fare lo stronzo Ene’” – “no eh, nemmeno tu”: così ci diciamo addio.

La prima guardia riconsegna i passaporti e poi si passa al braccio femminile. Prima di arrivare si vedono già, le donne. Con le unghie sbeccate si aggrappano al ferro della recinzione, chiedono qualche pesos e qualcuno lancia qualcosa camminando sul vialetto e un bambino corre che quasi sembra libero e poi invece no, torna in carcere, a 3 anni o giù di lì. Le donne sono poche, incinta o molto giovani. Il braccio è ordinato e qualcuna mangia seduta a terra, anche qui qualcuna sta dietro alle sbarre altre hanno organizzato i loro armadi sulle finestre: dallo spazzolino, al pezzo d’abbigliamento, al pezzo di pane, al pezzo di sapone.

Ultimo timbro e poi l’uscita con la crocetta rossa, chè se non te la mettono chissà che dovrebbe succedere. L’immensa porta si chiude alle nostre spalle e infiniti pezzi d’inferno si incastrano tra lo stomaco e la gola.
Palmasola è città, società parallela, quotidiana negazione di qualsiasi diritto umano. È soffocamento, abbraccio di coppie sui muretti e nei ristoranti, affitto per vivere nelle case assegnate, parabole per gli schermi piatti, cellulari per chiamare chiunque. Palmasola è un giro d’affari da grande azienda, è 3500 esseri umani organizzati per non smettere di delinquere mai, è scuola per imparare a morire dentro, un giorno alla volta.

Il taxi prende la strada principale, il filo spinato incastra i sacchetti della festa finita, della cena mangiata, di un abominio che è obbligatorio raccontare.