Disoccupazione record e i giovani senegalesi sognano l’Occidente
di Angelica Erta
Una circonvallazione a tre corsie taglia fuori la periferia di Dakar. L’attraversano pochissimi camion, rari autobus e molte automobili lanciate in una folle corsa verso la modernità. C’è anche una versione africana di Uber, si chiama transport en commun, un minibus sempre stipato di gente, con le porte aperte a cui si afferrano i ragazzi, gli ultimi ad essere arrivati alla fermata e stanchi d’attendere un’altra mezz’ora sotto un sole cocente.
I capannoni industriali si contano sulle dita delle mani, spicca lo stabilimento della Philip Morriss. I comuni limitrofi alla capitale – Pikine, Thiaroye, Guédiawaye – sono cresciuti tumultuosi, con il grigiore appicciato alle pareti delle case. La singhiozzante crescita economica ha avuto i tentacoli di mattoni e calcestruzzo.
Per raggiungere Pikine si deve attraversare un ponte sopraelevato. Da lassù s’intravedono una cordigliera di lamiere, pezzi di mura, sagome in movimento. “Ma ci vivono lì?” – chiedo al taxista. Lui mi squadra male: “Cosa diavolo vorrà questa toubab (europea bianca)?”. Poi risponde perplesso: “È gente arrivata dalle campagne in cerca di lavoro, è terra di nessuno”.
Pikine ha il sapore dell’hinterland – solo case su case, catrame e cemento … e non lasciano l’erba, e non lasciano l’erba -, ma è sprofondata in una miseria tanto misera che non trova cittadinanza in nessun fazzoletto d’Occidente. Somiglia ad una conchiglia, con il guscio duro delle strade principali.
Poi, quando ci s’immerge nei suoi anfratti l’asfalto scompare, le vie sono terra battuta e i bambini sgusciano fra i catorci delle auto come i gatti, a cinque anni ne hanno dieci, a dieci sono già grandi.
L’Africa tradizionale è scomparsa, ma la caotica urbanizzazione non è andata di pari passo con il consolidamento dell’economia, lasciando allo sbando un’intera generazione.
Secondo un recente studio dell’Agenzia Nazionale di Statistica, i giovani fra i quindici e i ventiquattro anni che entrano annualmente nel mercato del lavoro sono circa 270.000, a fronte di solo 30.000 posti creati dal settore formale.
Li vedi alle undici del mattino, con un pallone in uno spiazzo sterrato o seduti sugli spalti di un muro diroccato; per loro non c’è né scuola né lavoro, solo un dribbling, una parata, un tifo da prima divisione. Qui il calcio è come l’Islam, una fede, un’ancora di salvezza.
Sono i ragazzi della banlieue, cresciuti con i videoclip di Rihanna e Bruno Mars, sempre in cerca di un lavoretto come manovale, meccanico o muratore per meno di dieci euro al giorno. Ragazzi con le immagini della Champions League nella testa.
Dal comune di Thiaroye sur Mer, terra di pescatori, nel 2006 partivano le piroghe dirette alle Isole Canarie, imbarcazioni di legno fragili come le barchette di carta. E i naufragi dei cayucos erano all’ordine del giorno nei telegiornali spagnoli.
Un decennio è trascorso invano. Le rotte sono cambiate, si sono abbandonate le piroghe, ma l’emigrazione con i suoi morti flagella ancora le famiglie come una piaga. E la gente non ha smesso di dire “Barça o Barsakh”, Barcellona o morto affogato, perché quel Barcellona significa Europa – Milano, Parigi, Amburgo o Marsiglia –, perché le salme inghiottite dal mare sono indifferenti alla costa d’approdo.
Qui, dove tutti hanno un amico o un fratello dall’altra parte del Mediteranno, non è difficile imbattersi in qualcuno con un figlio morto senza una lapide. In questo pezzo di periferia abbandonata a sé stessa è nata l’Association des Jeunes Repatriés.
La costituiscono uomini di mezza età, ex-emigranti che hanno visto sbriciolarsi il sogno europeo e hanno deciso, malgrado tutto, di tornare. Il loro obiettivo è informare i giovani sui rischi dell’immigrazione clandestina ma, come ammette il presidente Moustafa Diouf, “l’unica vera soluzione è la creazione di posti di lavoro. A Thiaroye servono investimenti per sviluppare il settore della pesca”.
Gli fanno eco le parole di Papa Demba Fall, geografo e ricercatore all’IFAN (Institut Fondamental d’Afrique Noir): “I giovani non temono la morte fisica, hanno paura della morte sociale. Senza un lavoro sono incapaci di migliorare la loro vita, per questo prendono il mare con la speranza d’arrivare”. Secondo un sondaggio promosso dall’IFAN il 75% dei senegalesi fra i venticinque e i trentacinque anni vorrebbe lasciare il Paese.
L’Europa è allora il sogno proibito che definisce questa generazione e ne costruisce l’identità in perenne crisi, fra quello che resta dell’orgoglio noir post-indipendenza e l’attrazione per quell’Occidente fatto di money and girls, come raccontano Snoop Dogg e gli altri idoli dell’hip-hop.
Mouhammed Thioune, con i suoi ventiquattro anni, è uno di loro. Vuole entrare nell’industria della moda ed è convinto che in Europa possa decollare la sua carriera. Nato fra le strade polverose di Pikine, ha sfiorato il successo e per qualche mese ha pure pensato di avercela fatta. È intrepido, giovane e attraente.
Ha mosso i primi passi con shooting per le firme locali, fino a quando il vento della sorte non ha soffiato a suo favore e l’hanno scelto per una pubblicità di Orange andata in onda sulla rete televisiva nazionale. Ora con quasi quattromila seguaci su Instagram è una star del quartiere popolare di Guele Tapée, ma da oltre un anno di contratti non ne ha più firmati.
Gli rimangono la pelle color dell’ebano, il corpo atletico, quattro vestiti di marca e uno smartphone. Anche lui – ammette – ha cercato il contatto di un passeur (trafficante di uomini) per raggiungere l’Europa. “Troppo rischioso” – afferma scuotendo la testa.
Mouhammed adesso fissa il pavimento e quell’oscillazione del capo riverbera in tutta la stanza. Non è sconsolato, sembra impregnato dell’assurda forza del destino. È ancora convinto che nascere sotto questi meridiani non sia per forza una condanna. Lui non se ne andrà, non adesso almeno, ma il cammino verso il benessere europeo rimane per tanti giovani come il canto delle sirene per Ulisse. Irresistibile.