Per un’analisi dei fatti, oltre le ideologie
di Vito Todeschini
L’operazione militare condotta dall’esercito turco nel cantone curdo di Afrin, paradossalmente denominata “Ramo d’ulivo”, non è che l’ultima di una numerosa serie di violazioni del diritto internazionale commesse nel corso del conflitto in Siria.
L’operazione è stata lanciata il 20 gennaio 2018, a pochi giorni dall’annuncio statunitense riguardo la
creazione di una forza di sicurezza a forte partecipazione curda lungo il confine siriano tra Turchia e Iraq.
Analisti, ONG e attivisti hanno fin da subito denunciato l’intervento militare turco per quel che è, ossia un tentativo di indebolire l’unità territoriale del Rojava, il Kurdistan siriano.
Stati e organizzazioni internazionali, soprattutto l’Onu e l’Ue, hanno invece reagito blandamente o con un profondo silenzio a quella che ha tutti i crismi di un’aggressione armata.
Il divieto dell’uso della forza unilaterale sancito dall’articolo 2(4) della Carta Onu è infatti una delle regole fondamentali del diritto internazionale contemporaneo. Sola eccezione a tale norma è il diritto alla legittima difesa, previsto dall’articolo 51 della Carta (l’altra eccezione, l’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza, si configura invece come uso collettivo della forza).
Il diritto internazionale sottopone l’esercizio della legittima difesa a condizioni stringenti:
1) lo Stato che usa la forza deve essere vittima di un attacco armato;
2) la risposta a tale attacco deve essere necessaria, ossia costituire l’unica opzione disponibile, e
proporzionata, cioè non eccedere rispetto all’obiettivo di respingere e/o nutralizzare l’attacco;
3) lo Stato deve comunicare al Consiglio di sicurezza le ragioni del ricorso all’uso della forza e quali misure sono state adottate o si intendo adottare in legittima difesa.
Come si può facilmente immaginare gli Stati tendono a invocare la legittima difesa per giustificare operazioni militari su suolo straniero, spesso in assenza o in violazione delle condizioni che ne regolano l’esercizio.
Nella lettera inviata al Consiglio di Sicurezza il governo turco denuncia i lanci di razzi da parte del YPG (Unità di protezione popolare, uno dei bracci armati dell’esercito curdo siriano) contro il proprio territorio e invoca esplicitamente il diritto di difendersi contro quelle che definisce “minacce terroristiche”.
Specifica inoltre che l’operazione “Ramo d’ulivo” ha come unico obiettivo “mettere in sicurezza il confine e neutralizzare i terroristi ad Afrin”.
A tal fine il governo turco descrive l’intervento militare come proporzionato, poichè rivolto contro i soli terroristi, le loro postazioni e i loro armamenti, e pianificato in maniera da evitare danni collaterali fra i civili.
Secondo la Turchia “tale misura è necessaria al fine di rendere sicuro il confine turco e la nostra sicurezza nazionale, in linea con l’articolo 51 della Carta ONU”.
Va detto che l’arsenale argomentativo in favore dell’attacco contro il cantone di Afrin non regge da punto di vista né fattuale né giuridico.
I lanci di razzi contro la Turchia si sono registrati solo dopo l’inizio dell’operazione “Ramo d’ulivo”, e anzi proprio in risposta a quest’ultima. Per di più, come affermato dalla Corte internazionale di giustizia, solo attacchi armati di una certa scala e gravità rendono lecito l’uso della forza in legittima difesa.
In questo senso spetta alla Turchia dimostrare che i lanci di razzi da parte curda sono di una portata tale, ad esempio in termini di vittime, da giustificare l’azioni militare ad Afrin. Nella lettera al Consiglio di sicurezza, tuttavia, il governo turco non fornisce alcun dettaglio in merito.
È inoltre discutibile che l’operazione “Ramo d’ulivo” possa definirsi proporzionata rispetto all’obiettivo di fermare i supposti attacchi contro il territorio turco.
Le forze messe in campo, la potenza di fuoco impiegata e l’estensione geografica dell’intervento militare dimostrano che essa intende piuttosto conseguire obiettivi strategici più ampi: creare una zona cuscinetto tra la Turchia e il Rojava e impedire che il cantone di Afrin si unisca a quello di Kobane per formare un’unica entità territoriale curda in Siria.
Né è la riprova il proposito turco di conquistare la città di Manbij, situata fra Afrin e Kobane, che si trova sotto il controllo delle Forze democratiche siriane, una formazione militare curdo-araba supportata dagli Stati Uniti.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani riferisce anche di possibili violazioni del diritto internazionale umanitario e crimini di guerra commessi dall’esercito turco e dai ribelli siriani suoi alleati, in particolare l’uccisione di civili e il bombardamento di siti archeologici.
Altri media riportano la notizia di un piano turco di ricollocamento nella provincia di Afrin dei
rifugiati siriani presenti in Turchia, al fine (non dichiarato) di alterare la composizione demografica dell’area e porre un’ulteriore ostacolo all’unità territoriale del Rojava.
Tale piano, in particolare se attuato contro la volontà dei rifugiati siriani, potrebbe violare il divieto di trasferimento forzato della popolazione civile stabilito dal diritto internazionale umanitario.
Come accennato, pesa notevolmente la reticenza di governi e organizzazioni internazionali a denunciare l’azione turca per quel che è: un atto di aggressione in violazione della Carta Onu.
Particolarmente grave è il silenzio del Consiglio di Sicurezza, l’organo deputato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
L’operazione turca è stata oggetto di discussione il 22 gennaio, ma il Consiglio ha evitato di approvare una risoluzione di condanna.
Se da un lato le violazioni del diritto internazionale sono frequenti, specialmente nei conflitti armati, dall’altro la denuncia ufficiale di un atto illecito è fondamentale per garantire il funzionamento del diritto internazionale. Rispetto al diritto statale, le norme internazionali operano in un sistema giuridico e politico decentralizzato in cui manca un parlamento, un governo o un giudice che abbia l’autorità di sancirne le violazioni.
Ciò significa che spetta in primo luogo a Stati e organizzazioni internazionali reagire agli atti che
violano il diritto internazionale, in particolare nei casi di aggressione armata.
In tal senso lascia fortemente perplessi la timida reazione dell’Ue, un attore che nel conflitto siriano si è presto schierato con i ribelli condannando i crimini internazionali commessi dal regime di Bashar al-Assad e che spesso non manca di denunciare le violazioni dei diritti umani commesse all’interno della Turchia.
L’Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini si è limitata ad esprimere “estrema preoccupazione” per la situazione umanitaria dei civili ad Afrin, evitando di criticare l’azione turca.
Invece è esattamente questo che si deve chiedere all’Ue: non restare silente di fronte alla guerra turca contro i curdi del Rojava e alle violazioni del diritto internazionale che questa comporta.