La guerra bianca, un evento “archeologico”, in una conversazione con il fotografo Stefano Torrione
di Erica Grossi
Le immagini del reportage-esposizione-catalogo La Guerra Bianca. 1915-18: vivere e morire sul fronte dei ghiacciai sono state scattate dal fotografo valdostano Stefano Torrione sulle montagne al confine tra Italia e Austria.
Qui, cento anni fa si è combattuta una peculiare versione della Prima guerra mondiale, chiamata per le sue asperità e altezze guerra bianca o guerra verticale, ovvero guerra di gelo e di montagna. Stelvio, Ortles-Cevedale, Adamello, Marmolada sono i nomi dei complessi montuosi coinvolti; Lombardia, Trentino Alto-Adige e Veneto le regioni allora interessate dal confine tra il Regno d’Italia e l’Impero austro-ungarico.
Il primo impatto con queste fotografie è segnato dalla vertigine: una sensazione di precarietà e di altezza che tiene lo sguardo sul bordo di ogni immagine. Qui il paesaggio sembra sempre in bilico su una dorsale innevata e gli oggetti ritratti balenano riflessi nelle gabbie di ghiaccio e sotto i mucchi di neve ormai gocciolanti che li contengono.
Il secondo impatto è quello che si articola nelle suggestioni numeriche: 1915-1918, 18, 23, -20°/-30°, 50, 70, 100, 3.400 m/3.632 m, 80.000, 150.000 – il tempo della guerra, l’età dei soldati, le temperature in alta quota, i corpi affiorati di recente dai ghiacciai, il totale delle immagini esposte, la distanza temporale tra l’ora e l’allora, le quote teatro del conflitto, il numero di animali morti e quello degli uomini caduti, vittime più delle condizioni contingenti che della polvere da sparo.
Il capogiro è dato da cifre e numeri che non smettono di aggiornarsi nelle didascalie delle immagini, dato anche l’avanzamento continuo del recupero, sotto gli strati di neve e ghiaccio, delle tracce di quegli eventi e della memoria di quella storia.
La vertigine è, dunque, il segno di questo lavoro, iniziato nell’estate del 2013 e giunto ad una prima tappa di realizzazione nel marzo 2014 con la pubblicazione del servizio fotografico sulle pagine di National Geographic Italia (primo articolo-reportage proposto anche sul sito internazionale di nationalgeographic.com).
Poi, è diventato una mostra itinerante a cura di Marco Cattaneo (qui l’anteprima del catalogo), partita da Trento il 4 maggio 2016, approdata a Milano il 14 luglio e destinata alla suggestiva collocazione del Forte di Bard dove sarà esposta a partire dal 29 marzo prossimo (inaugurazione il 28 marzo) e fino al 2 settembre.
Come Torrione stesso tiene a dire, rievocando le fasi di questo work in progress, il progetto si è sviluppato sotto la guida di Marco Gramola, esperto alpinista e presidente della Commissione storica della Sat (Società degli Alpinisti Tridentini).
Il fotografo e l’alpinista percorrono insieme lo spazio dove negli ultimi cento anni – anche dati gli esiti di quella guerra – si è spostato il confine di regni, stati e imperi e si è definito il profilo delle regioni, tutto sotto la coperta perenne dei ghiacciai e della neve e sulla superficie scoscesa di montagne indifferenti alla logica della topografia politica decisa al suono dei cannoni.
L’alpinista e il fotografo procedono insieme al disvelamento – per Torrione, «un’esperienza di enorme stupore» – di una guerra rimasta lontana dagli sguardi e dai fasti del Centenario ancora in corso, troppo distante e difficile, faticosa e vertiginosa per armonizzarsi alla prospettiva piana e regolare delle commemorazioni nazionali.
L’alpinista si muove nel paesaggio con il rispetto del custode della montagna e del conservatore di fonti fragilissime disposte e inventariate nei ghiacciai-archivi d’alta quota dall’opera del tempo e del gelo.
Il fotografo, col suo occhio tecnico, è pronto a cogliere l’immagine del ritrovamento, a trasporlo dall’immobilità del ghiaccio all’immortalità dell’inquadratura fotografica e farne un “recuperato” alla memoria.
I riquadri si moltiplicano, si sovrappongono, si inanellano: quello della fessura del punto di osservazione, costruito nella roccia ad uso delle vedette; quello dell’obiettivo dell’arma di mira; quello della macchina fotografica e, infine, quello del grande formato delle 70 immagini esposte che permette all’occhio di andare oltre la censura “naturale” causata dagli oggetti del paesaggio e quella tecnica della presa di visione menomata dalle feritoie della trincea.
Storia geografia archeologia sono quindi le cifre metodologiche dell’impresa fotografica di Torrione, alla ricerca dell’esperienza vissuta dai soldati italiani e austro-ungarici che a migliaia, per la prima volta, salgono quelle vette, lasciando sulla strada dell’arrampicata appigli, ferrate, gradini, rifugi, osservatori, baracche e, ben oltre quota 3.000 metri, trincee di reticolati e camminamenti, cannoni e granate, fucili e maschere antigas.
Questi soldati, presi in mezzo da una guerra dalle cui logiche sono travolti, si ritrovano a vivere e a morire in trinceramenti e “città di ghiaccio” creati ad altezze e a temperature mai prima e mai più sperimentate come luoghi di adattamento per la vita civile.
Le fotografie di Torrione sembrano fare “eco a colori” a quelle scattate dai soldati della Prima guerra mondiale – in particolare, dai Servizi foto-cinematografici dei diversi eserciti, come quelle fornite al progetto dal Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto – e sviluppate nel bianco / nero della tecnica del primo Novecento, in pendant cromatico con il paesaggio innevato, appuntato da macchie umane e striato da scie di reticolati.
Si tratta di un patrimonio di immagini imponente e di valore incalcolabile, capace di restituire all’osservatore odierno non soltanto l’estensione spazio-temporale dell’evento-Grande guerra ma anche la sua intensità: sia nei gesti umani e militari degli uomini investiti nelle attività belliche; sia nei segni inferti sulla faccia militarizzata della terra, a quelle quote e altitudini.
Per quei soldati – magari arrivati dalla Calabria o, per il lato dell’impero, dall’Ungheria – quello con le Alpi più che un riconoscimento con le montagne propagandate come “sacre alla patria” e per cui combattere, è una vera e propria scoperta della montagna della quale moltissimi fanno esperienza in quella sola terribile occasione.
Una scoperta che poi, come ha scritto di recente lo storico dell’ambiente Marco Armiero nel suo Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, l’uso retorico ed estetico dei regimi a venire trasformerà in una vera e propria invenzione culturale e in un business per il turismo di guerra e cimiteriale, ma non solo.
Così, parafrasando una delle conclusioni di Armiero, se la natura ha trasfigurato gli orrori della guerra e la tragedia umana dei soldati preservandone nel ghiaccio le tracce, la politica li ha invece organizzati nel discorso nazional-patriottico, rendendone eterna la memoria, iconizzata al punto di entrare nello spazio di un francobollo commemorativo.
Al contrario, nella mostra e nel catalogo, le fotografie coeve e quelle scattate da Torrione dialogano tra loro, promettendo all’osservatore volenteroso una via di uscita da quello stretto e abusato spazio retorico.
Il dialogo, tra il passato conservato dal ghiaccio e il presente immortalato dagli scatti contemporanei netti e nitidi del reporter, ha una natura concreta, materiale e contestualizzata che non attiva solo la riflessione teorica e la dimensione speculativa su quello che è mostrato.
Da un lato, infatti, le immagini del ’15-’18 e quelle di oggi compongono un vero e proprio catalogo-atlante aggiornato degli interventi del genio militare, delle macerie e delle ferite lasciati dalla guerra nel paesaggio alpino; dall’altro, queste fotografie immortalano non soltanto i segni della militarizzazione e urbanizzazione di un territorio fino ad allora inviolato – testimonianze visive dell’applicazione della tecnica allo scopo di conquistare e antropomorfizzare la montagna – ma mostrano anche i segni di un’altra storia, che corre parallela a quella della guerra: quella della presenza umana nel mondo negli ultimi cento anni.
Ne sono segnali gli stessi affioramenti “naturali”, le riemersioni spontanee di oggetti – e addirittura corpi – dai ghiacciai e dalle distese di neve ormai non più perenni ma avviati, a causa dei cambiamenti climatici globali, al progressivo disgelo.
Neve e ghiaccio (quasi) perenni sono i fattori primari della conservazione dei materiali della guerra di montagna, materiali che oggi affiorano casualmente dalla superficie del paesaggio, quasi sotto l’effetto di un fenomeno spontaneo di emersione di reperti archeologici del nostro passato contemporaneo.
Le fotografie di Torrione agiscono e raccontano proprio questo processo di affioramento e scavo della storia, fissando in immagini il genius loci archeologico delle montagne della guerra.
La Grande guerra e, in particolare, la Grande guerra bianca viene considerata uno spartiacque del Novecento e dell’età contemporanea per molteplici ragioni, ribadite da una letteratura sterminata e il cui censimento rasenta ormai l’impresa eroica.
Un aspetto però non così indagato e analizzato – ma che ne fa un oggetto peculiare di studio – riguarda l’essere fin da subito, dalle prime mosse strategiche e dalla collocazione dei primi trinceramenti, un evento prima che storico, archeologico.
Il campo di battaglia del primo conflitto mondiale è, prima di tutto, un campo di scavo.
La guerra e le guerre fino a quel momento si sono combattute su terreni circoscritti che, finito il clamore delle armi, sono abbandonati insieme ai resti di armi, animali e uomini caduti in combattimento.
La guerra del ’14-’18 è invece la prima guerra di posizione e di trincea: posizione e trincea resi possibili solo in seguito a un lavoro di trasformazione morfologica dello spazio e, soprattutto, di scavo che, quindi, determina, ancora prima che si inizi a combattere, l’interramento di cose e persone e la produzione di resti, rovine, mucchi di macerie, ancora prima che prendano a tuonare le armi e si avanzi lasciandosi alle spalle nuove macerie.
Questa dimensione immediatamente archeologica e sotterranea della Grande guerra non esclude e non dispensa nemmeno le montagne: la Punta Linke (gruppo dell’Ortles-Cevedale, 3.632 m) e il Corno di Cavento (gruppo dell’Adamello, 3.400 m), per esempio, vengono scavati e svuotati per creare gallerie di passaggio e nascondere magazzini di munizioni, ma anche per stabilire dormitori e baracche per i soldati.
Nella grotta di Cavento – fotografata da Torrione avendo negli occhi la scenografia in cui si svolge la vita dei soldati di Olmi in Torneranno i prati (2014) – questi vivono e resistono al freddo intenso, anche a 30° sotto zero.
Qui lasciano traccia di sé quando, finita la guerra e sparito l’uomo in poca carne e tutto ossa, il ghiaccio inizia a rifarsi strada e a riprendersi lo spazio, a occupare di nuovo il vuoto lasciato dalla pietra “innaturalmente” scavata.
Nella sua avanzata inesorabile, il gelo immobilizza, ingabbiandoli, granate, utensili di fortuna, letti di paglia e gamelle, scatolette di sardine e altri resti in cui del passaggio dell’uomo per quelle grotte si conserva il distillato antropologico e l’impronta del corpo militarizzato: il gesto quotidiano della scrittura, il rito del cibo e della preghiera, il momento del riposo, la forma del piede in uno scarpone, quella del volto nella stoffa modellata della “maschera” dagli occhi cavi che guarda il mondo dalla copertina del catalogo cent’anni dopo essere stata svuotata della testa che la indossava.
Qui, come sui versanti dei passi e sugli spartiacque delle cime, gli eventi naturali seguiti a quelli della catastrofe storica tornano ad agire, creando nuovi siti archeologici dove in cent’anni torneranno gli uomini, gli alpinisti, i turisti della memoria, i fotografi, appassionati e amatori, recuperanti e archeologi del Novecento, a cercare tracce e segni di quella presenza umana sub specie bellica.
Ciò che poi la natura restituisce della storia che l’ha scavata, attraversata, contaminata – e che è conservato presso la Soprintendenza per i Beni culturali della Provincia Autonoma di Trento e presso la Mostra permanente della Grande guerra di Borgo Valsugana – si ritrova ritratto da Torrione nel formato di giganteschi “studi in bianco” inseriti nel reportage come documento dell’impresa di conservazione della memoria per l’azione “naturale” dell’altitudine.
«Testimone di cose che non ci sono più», così si definisce il reporter valdostano.
Agli occhi dell’osservatore del suo lavoro, però, egli può sembrare piuttosto il testimone di cose che ancora sono, anche se nascoste, ancora non emerse dal campo archeologico delle montagne della Guerra bianca, giacenti sotto la neve e in gabbie di ghiaccio e ruggine come relitti nel mare.
Il lavoro di scavo della memoria, quindi, non può ancora (mai) dirsi finito. Di sicuro non è finita l’impresa di Torrione che si prepara già a scalare la sua personale seconda tappa di questo progetto, proponendo un crowdfunding per la realizzazione del “grande libro” dell’intero reportage della Guerra bianca: «dal gruppo dell’Ortles-Cevedale all’Adamello, dalla Presanella al Tonale, dall’Alte Valli di Ledro al sacro monte Pasubio, dall’Ortigara al Lagorai, dal Cauriol alla Marmolada fino a Cima Undici e alla Croda Rossa, per tutta la linea del fronte più alto mai raggiunto da una guerra in terra europea» (proposta di finanziamento dal basso, modi e obiettivi sono disponibili online qui).