Il 30 agosto 1960, alle Olimpiadi di Roma, inizia la leggenda del più grande pugile di tutti i tempi. All’epoca non ancora icona globale, ma solo un adolescente di talento
di Christian Elia
I momenti diventano storici per tanti motivi. Spesso, finisce per trattarsi di dettagli. La vita di Mohammed Alì, la traccia che il suo passaggio ha lasciato e lascerà su questa terra, è grande come quella di un dinosauro.
Una storia densa, ricca, potente. Stupefacente come ogni epifania, luminosa come un lampo, fragorosa come il tuono. Tutte le storie, però, hanno un inizio, anche le più grandi.
L’incipit della storia di Alì è stato scritto in Italia, nel 1960, durante i Giochi Olimpici di Roma. Vero, Cassius Clay (cambierà il suo nome solo dopo la conversione all’Islam, nel 1964) nasce negli Stati Uniti, il 17 gennaio 1942, a Louisville, in Kentucky. Questo è di sicuro un inizio, ma non basta. Ci sarebbe anche il poliziotto di origini irlandesi, Joe Martin, che convince un ragazzino nero di 12 anni a imparare la boxe dal maestro Angelo Dundee, dopo che gli avevano rubato una bicicletta. Ma anche questo non basta. Il vero inizio, quello globale, è Roma.
Come non bastasse la magnifica cornice della città eterna, i Giochi Olimpici del 1960 erano predestinati al mito: per la prima volta nella storia le immagini delle gare vengono trasmesse in TV in tutta Europa, con la RAI che produce più di cento ore di trasmissione. Un evento mondiale, nutrito di spettatori globali. Due elementi che muteranno per sempre la storia dello sport, un cambiamento che segna l’arrivo – irreversibile – dell’economia di mercato nel mondo degli atleti.
Un mercato, immenso, che ha bisogno di icone delle quali nutrirsi. Cassius ha solo 18 anni e tutto questo è molto lontano dall’orizzonte di un adolescente del Kentucky, ma certe dinamiche si innescano a prescindere dalla consapevolezza dei protagonisti. Il 30 agosto 1960, 53 anni fa, Clay debutta alle Olimpiadi. Di lui si sa solo che ha vinto un paio di campionati nazionali amatory negli Usa. Invece al mondo si svela uno dei talenti più grandi che il pugilato abbia mai generato.
In Clay velocità e Potenza si fondono come non era mai stato: la divisione tra picchiatori e tecnici, quasi un muro di Berlino della boxe fino all’avvento di Clay, va in pezzi. Si può danzare come una farfalla, pungendo come un’ape. Un’unione di classe, rapidità, precision che donano alla boxe di Clay la leggerezza di una danza. Ne sono travolti nell’ordine il belga Yan Becaus, il sovietico Gennady Schatkov e l’australiano Tony Madigan e il polacco Zbigniew Pietrzykowsk.
Questo è l’inizio, quello vero. Ed è ad occhi bassi, timidi, sfuggenti. Cassius Clay non è ancora Mohammed Alì, ma mica solo per il nome. La sfrontatezza, l’ipegno politico, il Vietnam e i diritti civili dei neri negli Usa della segregazione, le donne e l’Islam, Malcom X e i ‘neri servi dei bianchi’, i titoli mondiali e le conferenze stampa come show. Tutto questo è lontano, lontanissimo. É un’evoluzione, qui si parla di un inizio.
Un incipit reso eterno da un altro scatto, quello del podio finale. Clay spicca di una spanna su tutti gli altri, non solo perché occupa il gradino più alto. La luce è una pennellata che il fotografo coglie appieno, come una premonizione, come un segno celeste, le stimmate da predestinato. Clay guarda un orizzonte più lontano di quello degli altri, una luce speciale lo illumina. Ma la seconda immagine è costruita, la prima é spontanea, vera. Quella di un ragazzo che ha vinto, ha faticato e non si rende ancora conto che la storia è pronta per lui, appena oltre l’orizzonte.
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Quella medaglia d’oro finirà gettata – secondo una leggenda popolare – nel fiume Ohio. molto più probabile che sia stata solo smarrita. Ma questo è un gesto che appartiene a Mohammed Alì, non a Cassius Clay. Quella medaglia gli verrà, finalmente, consegnata ancora in occasione delle Olimpiadi del 1996, ad Atlanta. Ad Alì viene chiesto di accendere il fuoco olimpico, non si tira indietro, non lo ha mai fatto. Entra un uomo provato nel corpo dal morbo di Parkinson, commuove il mondo. Si chiude un sipario, la vita diventa di nuovo una dimensione privata, la finestra globale che si è aperta nel 1960 a Roma si chiude ad Atlanta. Resta il privato, l’intimo, come quello sguardo basso, da cui tutto è partito per un viaggio che nessuno potrà mai dimenticare.