E’ facile capire la solitudine del popolo siriano oggi. E’ facile capirla anche mentre il mondo e’ in attesa, aspettando di sapere se la decisione di Obama di intervenire militarmente in Siria sarà convalidata dal Congresso americano che dovrà riunirsi il nove settembre prossimo.
Da Beirut, Chiara Calabrese
L’intervento statunitense – se mai ci sarà – non cambierà le sorti del popolo siriano. Loro resteranno soli perché quel che conta per Obama, come l’hanno ripetuto fonti ufficiali della Casa Bianca e’ di “assicurare la sicurezza di Israele” e di “non permettere a Bashar al-Assad l’uso di armi chimiche” e non quindi la caduta del regime di Assad ne’ di spostare l’ago della bilancia a favore dei ribelli. Già tempo fa Obama aveva affermato che l’uso di armi chimiche da parte di Assad sarebbe stata “un’azione che non poteva restare impunita”.
“Nessuno si aspetta favori dagli Stati Uniti qui” – dice Marwan, un uomo di cinquant’anni che da un anno ormai ha trovato rifugio in Libano- “per noi non cambierà niente, ai bombardamenti se ne aggiungeranno altri. Quello che abbiamo imparato in questi mesi e’ che alla fine a pagare il prezzo siamo sempre noi il popolo”.
Non cambierà niente nemmeno per Hasan, padre di quattro figli, la cui preoccupazione oggi e’ quella di poter avere uno status di rifugiato in Libano per poter cosi assicurare ai suoi figli un’istruzione nelle scuole dell’UNRWA – scuole delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi – che attualmente accolgono anche i figli dei rifugiati siriani. Seduti su un marciapiede i figli di Hasan, assieme agli altri bambini aspettano assieme alle loro mamme, davanti agli uffici della Sicurezza Generale libanese i documenti che gli possono permettere una vita quasi normale.
Intanto per le strade di Beirut si moltiplicano i bambini siriani che chiedono l’elemosina ai semafori vendendo gomme da masticare e collane di gelsomini, si moltiplicano le mamme che sui marciapiedi con i bimbi in braccio chiedono aiuti ai passanti in un paese dove gli aiuti istituzionali sono davvero rari o pochi.
Maha una donna di cinquant’anni che ha trovato ospitalità da una famiglia libanese scoppia in lacrime mentre racconta la sua vita oggi: suo marito morto in Siria e i suoi figli appena adolescenti costretti a lavorare per poter aiutare gli altri figli più piccoli.
Assieme a Maha, altre donne, altre famiglie ma la stessa storia. Tutte condividono la stessa tragedia fatta di morti, ingiustizie e spostamenti alla ricerca di una zona tranquilla.
Come la storia di Samira che racconta come il mese scorso ha camminato circa dieci chilometri a piedi con i suoi figli prima di poter arrivare in Libano perché si era stancata dice “di sentire la puzza del sangue per le strade”. O come la storia di Abu Maher che invece racconta come ha perso tutta la sua famiglia nei bombardamenti ad Homs, assieme alla sua casa e al suo negozio di frutta. Poi c’e’ la storia di Rima che invece tra tutte queste sembra piena di speranza. Insegnante all’Università di Damasco Rima dopo aver trascorso alcuni mesi in Libano ha deciso di rientrare al suo paese e di riprendere il suo lavoro. “L’Università nonostante tutto e’ ancora aperta- racconta-, dalla periferia dove abito per arrivare nel quartiere di Mezzeh impiego circa 3 ore invece dei soliti 30 minuti, la situazione e’ stressante , gli alunni sono stanchi perche per arrivare ci sono vari controlli dell’esercito, non ci sono più soldi nemmeno per prendere i trasporti pubblici e quindi molti di loro vengono anche a piedi”.
“La gente in Siria – dice Nur una ragazza di trent’anni che da poco si e’ trasferita in Libano – sembra essersi abituata alla guerra. Io ho tutta la mia famiglia a Damasco e fino a poco tempo fa ero anche io lì con loro. Come trascorrevo le mie giornate? Aspettando che il domani non fosse peggiore dell’oggi”.
Con un po’ di ironia Nur mi racconta una barzelletta che gira oggi tra i rifugiati siriani in Libano.
Un combattente dell’Esercito siriano libero va in paradiso e mentre e’ sull’ingresso aspettando di entrare incontra un soldato dell’esercito di Asad che e’ di fronte a lui.
“Cosa stai facendo qui”? domanda al soldato. “Se tu non vai nell’inferno chi ci potrà andare?
Il soldato si guarda intorno e sorride. “Il popolo siriano” risponde, “sono gli unici che sono nell’inferno”.