I capi di Stato e di governo del G20 si incontreranno a San Pietroburgo per il loro vertice annuale. Quest’anno la presidenza spetta alla Russia di Vladimir Putin, come mai negli ultimi venti anni ai ferri corti nelle relazioni con gli Stati Uniti e gran parte dei paesi occidentali. La mina della guerra in Siria, ormai difficile da disinnescare, finirà inevitabilmente tra le portate del vertice. Ma i motivi di conflitto non mancano anche nella sfera economica, finanziaria e monetaria, da sempre al centro dei negoziati del G20. Re:Common sarà presente al vertice di San Pietroburgo, così come al contro-vertice della società civile internazionale organizzato nell’ambito dell’iniziativa “Post-Globalizzazione”.
Da San Pietroburgo Luca Manes e Antonio Tricarico
Re:Common
5 settembre 2013
La finanza globale ancora fuori controllo
Cinque anni fa, subito dopo il crollo della Lehman Brothers, il Presidente americano uscente George W. Bush convocava per la prima volta a Washington i leader dei 20 paesi più influenti al mondo per discutere come evitare il tracollo dell’economia mondiale. Si proclamò di essere giunti a un passo dal baratro e le parole altisonanti non mancarono, così come al G20 di Londra dell’aprile 2009, quando i leader adottarono un ambizioso piano di riforme dei mercati per imporre una nuova e più stringente regolamentazione della finanza globale. A cinque anni di distanza, i negoziatori del G20 affermano che finalmente ci si avvicina al summit con la “casa economica” non in fiamme. Tuttavia il bilancio dell’azione del gruppo sulla regolamentazione della finanza globale, regolamentazione la cui assenza è stata la causa principale della crisi iniziata nel 2007, è deludente: poche misure concordate tra i venti paesi, delle quali molte inefficaci e non ancora attuate, oppure solamente a livello nazionale, lasciando così irrisolto il problema di come imbrigliare i mercati globali e le loro razzie speculative. La creazione di un Consiglio per la Stabilità Finanziaria (FSB) nel 2009 si è risolta complessivamente in un fallimento.
In ordine sparso per far fronte alla crisi economica
Quando la crisi finanziaria si è trasferita sui bilanci dei paesi avanzati e il mantra dell’austerità ha preso il sopravvento soprattutto in Europa, le distanze nel G20 si sono acuite ancora di più. La risposta americana è stata quella di dare nel medio termine un ruolo interventista mai testato prima alla potente banca centrale, la Fed: il cosiddetto “alleggerimento quantitativo” che di fatto crea base monetaria per i mercati di capitale privati e l’esecutivo. Il G20 si è diviso. Il Giappone ha finito per seguire l’approccio di Washington e la finanza europea ne ha indirettamente beneficiato, in silenzio, nonostante le rigidità tedesche e della Bce ad attuare politiche analoghe. Di contro, feroci sono state le critiche in particolare dei paesi Brics, timorosi che l’immensa liquidità di dollari creata dalla Fed riscaldasse in maniera speculativa le proprie economie. Cosa che in parte è avvenuta.
Ancora di più ha però pesato la recessione nelle economie avanzate e il conseguente rallentamento dell’economia mondiale, in particolare del commercio globalizzato. Cosicché anche il dragone cinese ha allentato il passo e con esso tutte le realtà emergenti sempre più collegate a Pechino. In Asia i rischi sono sempre più forti. A fronte di un ingigantirsi delle piazze finanziarie di Singapore e Hong Kong, i problemi interni dell’economia indiana e di quella cinese si moltiplicano. Per la prima, iniziano a mancare sufficienti capitali da investire nel lungo termine nelle opere infrastrutturali, mentre per la Cina il problema è ancora più serio e puramente finanziario, con un sistema bancario ombra gigantesco e frutto di una speculazione galoppante capace di far crollare la seconda super potenza mondiale.
Quale politica monetaria e fiscale per uscire dalla crisi economica?
Oggi le parti al G20 iniziano ad invertirsi, in maniera impensabile solo qualche anno fa. Di fronte alla possibilità che la Fed riduca il suo “alleggerimento quantitativo”, poiché inizia ad essere in vista una ripresa economica negli Usa con possibili rischi di inflazione, i rappresentanti dei paesi emergenti aggiungono la loro voce a quella dei mercati finanziari globali che temono una diminuzione dei loro extra-profitti se la liquidità a basso costo sui mercati finirà per restringersi.
Allo stesso tempo le critiche alle politiche espansive del Giappone sono sfumate, di fronte alla consapevolezza dell’impossibilità che questo paese possa ridurre il suo debito pubblico immenso – superiore al 200 per cento del Pil, pur se contratto principalmente con investitori nazionali.
Allo stesso tempo proprio con una prospettiva di investitore estero dei mega profitti del petrolio – che ben poco sono usati per fini sociali interni a fronte di una repressione del dissenso politico sempre più forte – il Cremlino ha messo in agenda il tema della sostenibilità del debito pubblico dei singoli paesi, avanzati o emergenti che siano. Questione che rimane spinosa e difficile da gestire, nel consesso europeo come in quello internazionale. Di fronte alle diversità di approcci e in attesa delle elezioni politiche nella Germania rigorista a fine settembre, sarà difficile andare oltre i generici proclami a favore di una crescita e della lotta alla disoccupazione.
Almeno tutti d’accordo sulle grandi opere, altro che “new green deal”!
Nell’ottica di rilanciare la crescita economica, così come avvenuto nell’ultimo anno nell’agenda politica in Europa, il tema dell’intervento pubblico a sostegno della realizzazione di mega opere infrastrutturali ha trovato ampio consenso nel G20 sotto la spinta della presidenza russa. Questa avrebbe voluto, in realtà, discutere solo di energia e di come gestire il transito in nuovi e vecchi oleodotti e gasdotti, nonché di come ridurre la speculazione sul prezzo del greggio. Poi il tema si è spostato su questioni su cui un consenso fosse più semplice da raggiungere, come tutte le grandi infrastrutture e il loro finanziamento. Per paesi come l’India, il rischio è quello di avere ancora più difficoltà a racimolare a prezzi vantaggiosi investimenti stranieri. Analogamente, i paesi Brics che hanno individuato numerose opere prioritarie, nonostante siano dotati di ingenti risorse e di proprie istituzioni finanziarie, preferiscono un’azione di finanziamento a livello multilaterale e con il coinvolgimento dei mercati internazionali, al fine di ridurre il proprio rischio di investimento.
Da qui l’iniziativa sul “finanziamento per gli investimenti” – segnatamente le mega infrastrutture – e nel loro modello di sviluppo alquanto discutibile loro collegato. Oltre alla definizione già effettuata dal G20 di una lista di progetti prioritari a livello internazionale, soprattutto nel cosiddetto Sud del mondo, i paesi emergenti hanno richiesto di aumentare il capitale disponibili presso le banche multilaterali di sviluppo per finanziarie con decine di miliardi di dollari infrastrutture un po’ in tutto il pianeta. Una richiesta che oggi trova l’opposizione delle economie avanzate, in periodo di recessione e di nuovi vincoli alla spesa incapaci di allocare ulteriori risorse nazionali in istituzioni internazionali. Da qui emerge l’idea di foraggiare la diffusione di nuovi strumenti di finanziamento basati sui mercati finanziari internazionali e mirati al coinvolgimento di risorse private. Meccanismi alquanto rischiosi nel lungo termine – come i cosiddetti project bond – che rischiano di produrre ugualmente debito e una finanziarizzazione delle stesse infrastrutture a vantaggio di pochi investitori privati.
La governance del Fondo monetario internazionale che non cambia
Si rischia invece un fallimento molto più palese nell’incapacità di trovare un accordo sulla formula da cui dovrebbe discendere la nuova allocazione delle quote di controllo nel Fondo monetario internazionale. Dopo l’apertura del governo statunitense ai paesi emergenti, che ha isolato gli europei che resistono un cambiamento in grado di dare più voce e potere alle nuove potenze, il problema è diventato il Congresso americano, che difficilmente approverà un tale cambiamento. Si va, quindi, verso uno stallo, con le solite recriminazioni, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Nel 2012, questi paesi anno lanciato la loro banca multilaterale, anche se, dopo gli annunci, ben poco si è mosso. Un chiaro segno di debolezza politica.
Un sorprendente slancio nella lotta all’evasione ed elusione fiscale
I veri e forse unici progressi il G20 quest’anno li sta facendo sul tema dell’evasione ed elusione fiscale. All’ultimo incontro dei ministri finanziari si è raggiunto un inusuale consenso su un piano di azione dell’Ocse contro l’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti verso i paradisi fiscali da parte delle grandi multinazionali. In particolare lo scambio automatico di informazioni in materia fiscale tra le autorità delle singole giurisdizioni è stato definito come lo standard globale da attuare. A San Pietroburgo sarà presentata una road map 2013-2014 per attuarlo. Anche i paesi Brics hanno fatto cadere i loro sospetti, avendo riscontrato la necessità di muoversi sul tema. Le loro multinazionali, infatti, hanno imparato subito da quelle del Nord come fare trucchi finanziari e contabili. Persino la Cina, sempre più preoccupata della propria stabilità finanziaria interna, ha dato il via libera. Si badi bene, però, il diavolo è nei dettagli dell’accordo ancora da definire, soprattutto per quel che riguarda una supervisione multilaterale dell’attuazione degli impegni presi da parte dei singoli paesi, anche tramite meccanismi di peer review.
Tuttavia il G20 non ha preso decisioni riguardo all’obbligo per le multinazionali di presentare bilanci dettagliati paese per paese, e non in forma aggregata come avviene oggi, al fine di smascherare i trucchi contabili con cui queste imprese evitano di pagare le tasse. Una questione emersa di recente in numerosi scandali internazionali nel mondo anglosassone (Google, Apple, Amazon, Starbucks) e anche da noi (si pensi alla vicenda di Dolce & Gabbana).
Le richieste della società civile
Re:Common e il resto della società civile internazionale chiedono che si dia seguito con maggiore coraggio politico a quanto il G20 finanziario ha deciso, mettendo in campo iniziative concrete nell’ambito del nuovo progetto biennale del G20 contro l’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti.
In particolare si vuole che i governi del G20 vadano oltre i modelli e proposte avanzate dall’Ocse, esplorando nuovi approcci alla “tassazione unitaria” delle multinazionali tramite formule più trasparenti e omogenee a livello internazionale. Allo stesso tempo si chiede che i paesi in via di sviluppo siano maggiormente coinvolti in questo processo, dal momento che le loro economie sono afflitte da una epidemica fuga di capitali come profitti non tassati delle multinazionali straniere. Infine, oltre all’implementazione dello scambio automatico di informazioni tra varie giurisdizioni in tempi brevi, si chiede che il G20 introduca l’obbligo di rendere pubblici i veri proprietari delle società, prevenendo fenomeni di riciclaggio e corruzione.