[note color=”000000″] Io arrampico. E trovo che lʼarrampicata sia una stupenda metafora di vita. Ma la vita, lʼaltra montagna, è piena di metafore. Perché ogni gesto, anche il più piccolo, è solo una parabola di qualcosa di molto, molto più universale. [/note]
di Alice Bellini
Il dolore fa sovvertire agli uomini le stagioni ed i tempi del riposo;
fa giorno della notte,
e notte del meriggio. A loro gloria
i principi non hanno che i lor titoli, lustro esteriore dʼinteriore affanno; e spesso per piaceri immaginari soffrono mille triboli:
sicché tra i loro titoli gloriosi
e un nome oscuro non vʼè differenza se non che nellʼesterna risonanza.
Devo essere sincera. Di tutte le opere di Shakespeare, il Riccardo III non era mai stata una di quelle che aveva goduto di una qualche mia particolare attenzione. Offuscata da una fama minore e caratterizzata da intrecci aristocratici che poco mʼallettavano, non lʼavevo mai approfondita a dovere. Ma, come per (quasi) tutte le cose, cʼè sempre una prima volta.
Per un caso fortuito e insieme fortunato, la mia estate è stata puntellata da serate domenicali trascorse al Globe Theatre di Roma, che ha messo in scena alcune opere shakespeariane, tra cui, appunto, il Riccardo III per la regia di Marco Carniti.
Lo spettacolo è stato squisito. Unʼinterpretazione assolutamente impeccabile da parte di tutti gli attori, una regia assennata, appassionata e appassionante, atmosfere incredibilmente coinvolgenti, letture inaspettate e sorprendenti. Metafore davvero sottili.
Per chi non lo sapesse, il Riccardo III è unʼopera che parla, fondamentalmente, di avidità e corruzione. Il protagonista, che nella storia dʼInghilterra è anche conosciuto come Riccardo Plantageneto, è un aristocratico sanguinario aspirante al trono, disposto a tutto pur di averlo. Un essere bieco, avido, viscido e traditore. La quintessenza della corruzione umana e politica, che raggiunge livelli di cattiveria e spudoratezza inauditi. Shakespeare, romanzando la figura del vero monarca, che comunque fu uno dei più sanguinari, rende il suo Riccardo un vero e proprio archetipo della malvagità e del dolore.
Ora, ciò che spiazza di più di questʼopera sono due cose. La prima è la sua vergognosa attualità. Vergognosa per noi, è ovvio. Fa paura e mette a disagio come personaggi, scenari e situazioni sembrino appartenere ai nostri anni, piuttosto che a un dramma cinquecentesco. O meglio, fa paura e mette a disagio come non siamo stati capaci di cambiare nulla dal ʻ500 ad oggi. Tantʼè che lʼanalogia tra Riccardo e Berlusconi viene naturale e immancabile, tingendo di un riso amaro le bocche degli spettatori, contenti di tale somiglianza, ma al contempo esasperati che non ci sia verso di scordarselo, quel nano malefico, manco a teatro. Anche un poʼ messi a disagio, volendo. Mette a disagio sapere che la crudeltà di Riccardo è la stessa di Silvio e che però noi non stiamo facendo poi molto per evitarla. Perché, dopotutto, si può dire quel che si vuole, ma se lui sta là è perché qualcuno, inclusa lʼopposizione, ce lʼha messo. Se lui sʼè sentito in diritto di fare appello alla Corte Internazionale dei Diritti Umani è perché qualcuno ce lʼha fatto sentire, in diritto. Perché se lui è arrivato a tali livelli di spudoratezza, qualcuno ce lʼha portato, o comunque non lʼha mai davvero ostacolato. E poi si fa presto a ridere, quando ormai sono tutti morti e da fare è rimasto poco.
Ma non sono qui per parlare per lʼennesima volta di qualcuno che è solo felice se si parla di lui, nel bene o nel male, purché lo si faccia. Né sono qui per parlare di corruzione politica in senso generale. Lʼunica cosa che mi sento di fare in merito è di consigliarvi di andare a vedere lo spettacolo, se potete, o comunque di leggervi il testo, con un occhio più critico e rivolto al presente di quanto non fareste in altri casi. Insomma, di leggerlo senza farvelo scivolare addosso.
Sono qui, invece, per parlare della seconda cosa che mʼha spiazzato più di tutte le altre. Ossia: è chiaro che Riccardo sia il Male nel corpo di un uomo e che, per questo, non può godere della stima, dellʼappoggio, né tantomeno della fiducia di nessuno. Un essere così bieco non si farà mai problemi a ritorcersi contro chi lo intralcia o lo infastidisce. Il suo fine giustifica qualsiasi suo mezzo. È vero anche, però, che nessun altro dei personaggi è immune ai suoi propri interessi. Si alleano e si sfidano con la stessa mutevolezza del vento, ascoltando anchʼessi solo il proprio dolore, in una lotta per la sopravvivenza che ha come unica clausola un pudore più alto rispetto a quello di Riccardo. O forse sarebbe da chiamare ipocrisia?
Ecco, quello che mi ha spiazzato, detto in parole povere, è il fatto che, alla fine di tutto e nonostante tutto, lʼunico di cui ci si poteva davvero fidare di tutta quella moltitudine di madri sofferenti e re morenti, era proprio Riccardo, il più cattivo, il più malvagio, il più disonesto. Una fiducia bacata, certo, ma “almeno” si poteva star certi della sua cattiveria. Si poteva star certi che lui non avrebbe favoreggiato altri che sé. Che qualunque cosa avesse fatto, non ci si sarebbe potuti fidare. Sapere di non potersi fidare assolutamente di qualcuno è pari al suo apposto, come qualsiasi altra situazione che vede fronteggiarsi due contrari. Ci si può fidare che non ci si può fidare. Scegliere per esclusione. Attaccare per difesa.
E mi spiazza con quanta naturalezza ci si riesca. Con quale incontrastabile istinto, che è sempre la parte più onesta di quello che siamo. Con quale incredibile spontaneità si finisca per fidarsi solo di colui che, più di tutti, merita il nostro allontanamento e la nostra diffidenza.
E allora mi chiedo se non sia per questa tendenza che lʼuomo incentiva sempre più le cose negative che lo circondano e si affida a chi più di tutti non se lo merita. È forse perché la cattiveria è lʼunica cosa di cui ci si può fidare, in un mondo dove il premio Nobel per la pace lo vince chi bombarda e lʼAlto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati autorizza veline e cocainomani a spettacolarizzare il dolore altrui per arricchirsi? O è una questione di annichilimento intellettivo? O è forse la paura di non farcela che, ancora una volta, la fa da padrone, in un mondo sempre più codardo, vigliacco e ipocrita, che loda gli opportunisti e deride le buone intenzioni, trovandole banali, noiose e, orrore degli orrori, inattuabili? O tuttʼe tre?
Non credo la risposta sia così facile e automatica. Ma almeno vale la pena pensarci su. Perché alla fine la politica, come ogni altra cosa al mondo, non è fatta che di uomini, che siano essi principi o schiavi, capi di stato che devono decidere se bombardare o civili bombardati, presidenti del consiglio con una passione per le minorenni o le minorenni, io che scrivo o voi che leggete, io che vi consiglio il Riccardo III o voi che, spero, ve lo andrete a guardare.