Il cielo vuoto sull’11 settembre

La signora Cheryl Desmarais ha saputo solo attraverso l’emittente CBS che la consueta cerimonia all’Empty Sky (il monumento in memoria delle vittime dell’11 settembre) è stata cancellata per motivi tecnici. Il dodicesimo anniversario dell’attacco alle Twin Towers del 2001 avrà un sapore amaro per le migliaia di persone che quella mattina hanno perso un figlio, un marito, una moglie, un genitore.

di Nicola Sessa, da Berlino

Cheryl è una vedova. Suo marito Mark è rimasto sotto le macerie e la polvere delle torri che si sono sgretolate dopo l’impatto dei due aerei di linea nel cuore finanziario degli Stati Uniti, nel luogo simbolo dell’impero americano.

La signora Desmarais era stata invitata come ogni anno, insieme ad altre centinaia di persone, per partecipare alla lettura dei nomi delle vittime dell’attentato terroristico. La CBS ne ha annunciata la cancellazione: non si è fatto in tempo a riparare i danni al memoriale, provocati dall’uragano Sandy che si è abbattuto sulla Grande Mela circa un anno fa, nell’ottobre del 2012.

La voce della vedova, intervenuta in trasmissione è piena di delusione: “Mi aspettavo poca gente quest’anno alla cerimonia, ma non la sua cancellazione”. Dall’altro capo del telefono c’è anche Rick Chaill, tra i fondatori dell’associazione del 9/11 Memorial: “Non ho potuto avvertire tutti della cancellazione dell’evento perché non abbiamo un ufficio stampa e il sito web è in crash. Faremo meglio l’anno prossimo”.

L’attacco dell’11 settembre ha cambiato l‘ordine mondiale e la vita di milioni di persone in tutto il mondo. Dopo dodici anni, sono molti a denunciare un calo di interesse nel ricordare quel momento. L’allora comandante in capo J.W. Bush aveva avviato una guerra globale al terrore che si è trasformata, negli anni, in una lunga serie di insuccessi, fallimenti, menzogne, azioni discutibili, lesioni ripetute di diritti civili in patria e fuori. Soprattutto, la piaga del terrorismo si è allargata in maniera smisurata: le file degli islamisti pronti a imbracciare le armi contro l’Occidente si sono moltiplicate, delocalizzate, mimetizzate e frantumatesi in centinaia di sfumature incomprensibili, il più delle volte, agli esperti agenti dell’intelligence.

Se l’obiettivo della guerra al terrore era un mondo più sicuro, esso è stato mancato in maniera clamorosa. Anche il concetto di democrazia, che andava esportata a suon di bombe e di massacri, ha subito un forte indebolimento. La libertà di movimento, il diritto alla privacy, i diritti civili fondamentali, hanno subito violente compressioni per effetto del Patriot Act negli Usa e delle varie forme di emulazione di quest’ultimo in giro per il mondo. Il risultato è deprimente: ci siamo avvicinati e di molto alla linea della barbarie che era nelle intenzioni di qualcuno, combattere. La tortura è diventata pratica giustificata, riconosciuta e ammessa. L’ottocentesco penitenziario dell’Ile du Diable, dove ha soggiornato anche il capitano Alfred Dreyfus, appare paradisiaco se confrontato a quel buco nero dei diritti umani che è il campo di prigionia di Guantanamo Bay.

emptysky

Il mondo è cambiato negli ultimi dodici anni. La Russia nel 2001 si leccava ancora le ferite provocate dal crollo dell’Unione Sovietica; la Cina era una macchina affamata di economia che si mostrava disinteressata e (forse, fintamente) distratta rispetto alla lotta per il dominio. La Mosca di oggi è più vicina, idealmente, alla grandezza dell’URSS che a quella mortificata e ridimensionata agli inizi della CSI. Pechino non è solo la più importante interlocutrice commerciale: è il più temibile avversario che si contrappone all’egemonia esclusiva di cui hanno goduto gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni.

Gli Usa, oggi, non hanno più campo libero. I tentennamenti di Obama, la dissoluzione della storica compattezza dell’opinione pubblica rispetto a certi argomenti, mettono in discussione la leadership americana. Il destino ha voluto che proprio a ridosso dell’11 settembre la Casa Bianca e il Congresso si trovino a discutere di un nuovo attacco, alla Siria questa volta. Tanto Barack Obama, quanto il segretario di Stato John Kerry, hanno usato lo stesso arsenale discorsivo che fu delle amministrazioni Bush: porre fine alle ingiustizie, distruggere le armi chimiche, tutelare gli interessi degli Stati Uniti, proteggere i cittadini americani da possibili attacchi.

Se nel 2001 il novanta e più percento appoggiava Enduring Freedom, oggi il 63 percento degli americani è contrario a un ulteriore intervento militare. Per varie ragioni: non si capisce il motivo dell’intervento (parlare di armi chimiche come fu fatto a proposito di Saddam nel 2003 solleva scetticismo più che indignazione); perché gli Stati Uniti dovrebbe presentarsi come alleati dei ribelli siriani in cui è radicata la matrice di al-Qaeda, nemico giurato dei newyorkesi prima e degli americani poi?; la linea rossa dell’utilizzo armi chimiche: perché intervenire adesso e non prima quando erano già state uccise 100mila persone?

Con il raffreddamento – doloroso ma tanto indiscutibile, quanto ineluttabile – dell’effetto 11 settembre, è cresciuto prepotentemente un senso critico che per un decennio era risultato soccombente nei confronti di rabbia, indignazione, sconcerto. Paura. Oggi ci si pongono degli interrogativi: vergogna su chi ha usato il gas Sarin; ma la stessa indignazione dovrebbe sollevarsi anche nei confronti di chi fa ricorso alle bombe Mk-77 al (not tecnically) napalm sganciate in maniera massiccia su Afghanistan e Iraq; alle bombe al fosforo bianco usate dagli Usa a Falluja in Iraq e in Afghanistan nei pressi di Bagram, da Israele sui civili a Gaza e dalle forze Nato a Misurata, in Libia, nella caccia a Gheddafi; nei confronti di chi, infine, ritiene essenziale l’uso delle cluster bomb (bombe a grappolo) le cui principali vittime sono i bambini. Ecco cosa scrive in merito il dipartimento di Stato degli Usa:

Cluster munitions have demonstrated military utility. Their elimination from U.S. stockpiles would put the lives of its soldiers and those of its coalition partners at risk”.

Le armi, il loro commercio, la supremazia tecnologica sono gli scopi ultimi delle politiche di aggressione? Ha ragione papa Francesco? Si direbbe di sì. Bisogna ricordare che quasi sempre le armi dei buoni e dei cattivi escono dalla stessa fabbrica, stesso venditore e stesso broker? Ciò cui abbiamo assistito è stata una lenta impercettibile modifica degli scopi: una eterogenesi dei fini. Non si fabbricano armi per fare una guerra; si fa una guerra per costruire, commercializzare le armi e usare le munizioni prossime alla scadenza.

Dopo dodici anni, cala quella maschera del diritto messa a coprire la forza violenta e diventa più difficile fare ciò che Tzvetan Todorov aveva precisamente descritto qualche anno fa come quel “camuffare la volontà di potenza come intervento umanitario e come battaglia per la civiltà e la giustizia”.       



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