Via Padova, Milano

Un viaggio è verso, attorno, dentro, lungo, ai confini, attraverso. E tanto altro ancora. Un viaggio è smarrimento, confronto, domanda e risposta. A volte, però, un viaggio è anche assenza. Via Padova, a Milano, è così. Una terra di mezzo, una stanza della vita. Che resta là, in attesa di essere abitata dalle storie che la attraversano.

Di Christian Elia

Spuntando dalla metro, stazione Loreto, la luce si spegne. Un giorno di cielo grigio, a Milano, è come il caffè. Lo prendi ogni giorno, ha sempre lo stesso sapore. Te ne accorgi solo se manca. Via Padova comincia in piazzale Loreto, una anonima rotonda frenetica dove attraversare è una sfida alla modernità. Solo che un giorno è passata la storia, scegliendo questo cerchio senza magia per piantare le radici della Repubblica italiana. Un tempo c’era un distributore di benzina, con una tettoia. Colui che si fece imperatore straccione finì appeso a testa in giù, come in un macabro omaggio al tratto grottesco di un ventennio che se non fosse stato tragico, sarebbe ricordato solo come farsesco. Ma la storia, a volte, è una signora distratta. Quella piazza, per il sacrificio simbolico, per lo scempio del corpo del tiranno, non venne scelta a caso. Il 10 agosto 1944, poco meno di un anno prima della esposizione, quindici partigiani erano stati fucilati dai fascisti e lasciati a marcire al sole, come monito. Una stele ne ricorda i nomi, anneriti dallo smog soffocante, che si mangia la memoria con la sua aggressiva idea di sviluppo. ALTA/L’ILLUMINATA FRONTE/CADDERO NEL NOME/DELLA LIBERTÀ, recita la stele, che dopo tanti anni pare ammalata di retorica. Antonio e Libero, Eraldo ed Emidio, Tullio e Renzo e tutti gli altri, uomini e ragazzi. Che sognavano un mondo di eguali. Un mondo che, nei sogni, doveva somigliare molto più a via Padova che alle vie del centro di Milano. Perché appena prendi quella strada, attraversi una porta girevole, che regala il capogiro della mondialità.

[blockquote align=”left”] Via Padova è lunga, più o meno, quattro chilometri, dall’inizio alla fine. Nel mezzo, più o meno, sono cinquanta le nazionalità che convivono. [/blockquote]

Via Padova è lunga, più o meno, quattro chilometri, dall’inizio alla fine. Nel mezzo, più o meno, sono cinquanta le nazionalità che convivono. Una sorta di Nazioni Unite del tirare a campare, un conclave delle fedi, un esperanto che si nutre di porfido, cemento e asfalto, un manuale di antropologia a cielo aperto. Una strada del mondo, una via del contemporaneo. Dall’America Latina all’Estremo Oriente, dai Balcani al Nord Africa, dall’Africa Nera all’Unione Europea. Un ristorante giapponese, un altro che promette sogni latinos, uno cinese. Benvenuti nella globalizzazione. Perché via Padova, alla fine, parla di tutti noi. Come la macelleria di Adamo, che letto così te lo immagini, un tronco d’uomo, magari bergamasco, con il grembiule sporco di sangue e la mannaia in mano, sotto due baffoni spioventi. Invece si da il caso che si tratti di Abdel Ghani Ahmed, macellaio halal, che rispetta i dettami della macellazione islamica. Ha scelto Adamo, come i Giovanni che diventavano John quando migravano a Lamerica. Nel 2004 qualcuno ha dato fuoco, di notte, al suo negozio. Perché il mondo è camminato anche dalle ombre e via Padova non fa differenza.

 

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foto di Germana Lavagna

Ombre che si addensano tra le pieghe della povertà, del disagio, della rabbia. Poco più avanti, all’angolo con via dei Transiti, la pizzeria Partenopea racconta della Milano del boom economico, quando i migranti erano sempre sporchi e cattivi, anche se avevano lo stesso passaporto dei milanesi. Perché via Padova, anche allora, era qui. E come oggi, era un’assenza. Lo spazio abitato da quella rimozione che la città impacchettata tenta della sua manodopera a basso costo. Questa storia la racconta Via Padova e oltre, splendido progetto di teatro d’impegno e di memoria, della compagnia del Teatro Officina. Attori di dieci nazionalità differenti che, nel 2010, portarono in scena oltre 120 ore di interviste realizzate tra vecchi e nuovi abitanti, italiani e stranieri, migranti meridionali e del mondo. Raccontavano tutti la stessa storia, ma ognuno a modo suo, rivendicando una sorta di diritto di precedenza: ho sofferto di più, lavoravo di più, mi integravo di più. Tutti si sentono diversi, perché li raccontano (e si raccontano) così.

Ma da questa strada passa anche la nostra di storia. A volte fatta di sorrisi. Come quelli che suscita l’ex-parco Trotter. Dal 1900 al 1924 il galoppatoio della città. Un posto esclusivo, dove la nuova borghesia sbatteva il suo successo in faccia alla aristocrazia cadente, contendendole il dominio della città. Nei viali alberati sembra di vederle, le signore, con ombrello e veletta, mentre portano a spasso i figli e l’ego del marito mercante realizzato. Il comune di Milano vi costruì una scuola speciale, la Casa del Sole, dove studiavano i bimbi malati di tubercolosi. Come se via Padova avesse avuto una lombrosiana tendenza a essere posto dove celare la polvere della società ricca e opulenta, un luogo per rinchiudere quello che non doveva deturpare l’immagine di Milano, fossero tubercolotici o migranti.

Dai diamanti non nasce niente, si sa, e quella scuola divenne un modello di pedagogia sull’attività all’aperto, che ancora oggi ne fa una delle scuole più belle della città. Perché via Padova è Milano, città che sa escludere e innovare, allo stesso tempo. Aprire e chiudere. Come Don Piero, il parroco di San Giovanni Crisostomo. Uno tosto, capace di tuonare contro un’immigrazione veloce e non gestita, che non poteva che causare tensioni, ma allo stesso tempo capace di aprire le porte del suo oratorio alle preghiere di tutte le fedi.Poco più giù, c’è la Casa della Cultura islamica, divisa dopo una scissione al suo interno che ha portato parte della comunità poco oltre, in un ex stabilimento Enel. Ma non mancano anche i centri degli evangelici, che ti sbarrano la strada con un cartello enorme: Gesù Cristo è il Signore. Ognuno ha il suo dio, e lo chiama come vuole. Per pregare, però, tutti prendono la linea 56, che stanca come una piroga scorre senza sosta dall’inizio alla fine di via Padova. Sotto una pensilina, si aspetta. Una donna velata, con un passeggino, accanto a un donnone biondo che profuma di Ucraina, mentre un vecchietto con l’Unità si mette a sedere, quando un ragazzo nero come il carbone gli cede il posto con un sorriso bianco come un lampo. [blockquote align=”right”]Ognuno ha il suo dio, e lo chiama come vuole. Per pregare, però, tutti prendono la linea 56, che stanca come una piroga scorre senza sosta dall’inizio alla fine di via Padova.[/blockquote]

Alla fermata Padova-Chavez, nel 2010, è morto Ahmed Abdel Aziz el Sayed Abdou. Neanche venti anni.Perché la notte è scura, ovunque. Una sera come tante, Ahmed torna a casa con gli amici, dopo aver festeggiato: aveva ottenuto il permesso di soggiorno dopo due anni a lavorar duro come pizzaiolo. Una parola di troppo, uno sguardo a una ragazza. Quello che è accaduto è ancora storia di aula di giustizia. Resta che un ragazzo più o meno della sua età, arrivato dal Perù con i suoi stessi progetti, vestito come lui, lo accoltella. Scoppia l’inferno: amici maghrebini si precipitano in strada, tentano (per motivi religiosi) di ricomporre il corpo. La polizia non comprende, non ascolta, deve fare il suo lavoro. Scoppiano scontri, sudamericani e nord africani si fronteggiano. I giornali ne parlano come di una rivolta, la politica decide che la vicenda va cavalcata. Come una beffa, proprio nei pressi di quella fermata del bus, campeggia uno dei poster elettorali della Lega Nord, formazione che come nessuna altra ha deciso che l’odio, alle urne, paga. Meridionali prima, migranti poi. Prima albanesi, rumeni, ora arabi. Ma in fondo tutti, basta convincere la gente che vive assediata. E costringerla a chiudersi dentro. Cambia solo l’uomo nero, ma fa paura allo stesso modo.

Un locale, a modo suo, rende omaggio a un altro pezzo della storia di Milano e di via Padova. Si chiama Ligera, come il nome dialettale della malavita. Oggi è un bar, dove oltre la porta gli anni Settanta si riprendono la scena. Francis Turatello, Renato Vallanzasca, Luciano Lutrig. Giovani esclusi dal boom economico dell’epoca, che decisero di prendersi il lusso a cui tutti gli insegnavano ad ambire con la forza. Scritti da Scerbanenco e cantanti da Nanni Svampa, Ornella Vanoni e Enzo Jannacci. Milano è stata anche questa, l’altra faccia della notte. Che, in qualche modo resiste. La bocciofila Caccialanza, appena prima del cavalcavia che sovrasta via Padova come un arcobaleno slavato di cemento, è qui dal 1969. Ancora 270 soci, tutti over 70, ma sempre animata. La pista, i giocatori, le chiacchiere. Ospita anche una trattoria, nel cortile, dove il recinto cela agli occhi i quaranta anni che sono passati. Lo stesso che per il cinema Ambra. Biglietto sette euro, cinque per militari e pensionati. Vecchio cinema oggi dedito al porno. Perché nessuno riesce a cogliere la differenza tra il centro massaggi thailandese e il cinemino porno, ma la marcia al grido di ‘riprendiamoci via Padova’, militanti della Lega in testa, raccoglieva le firme solo contro il primo. Solo che di marce, qui, ne fanno anche quelli che non vogliono la militarizzazione della città. Perché via Padova, al centro del mondo, ospita tutti. Chi si chiude dentro e chi cammina fuori. Non fuori come i caduti di Oltre mare, celebrati da un monumento all’angolo con via don Orione.

Guardi e ti stupisci, perché il mare non ti è sembrato mai così lontano. Annusi l’aria, ma invece della salsedine ti arrivano gli effluvi dei mille kebab, della cucina dello Sri Lanka e del Marocco. No, il mare proprio no. Ma quel monumento, ai caduti di tutte le guerre, non riesce a mutare – nella rigida posa del milite scolpito – il suo sguardo, verso un monumento contro tutte le guerre. A pochi passi, infatti, come se via Padova conoscesse il suo destino, si dipanano in pochi metri un crocicchio di vie con nomi esotici: Dogali, Benadir, Agordat, Bengasi. E l’odore diventa quello del gas nervino del maresciallo Graziani e degli altri criminali di guerra delle strampalate e sanguinose buffonate coloniali italiane. Che non hanno insegnato a capire l’altro, educando al rispetto, non alla tolleranza. Guardando facendosi specchio. Un bar, uno qualunque. Una donna italiana, anziana, con un bimbo che mangia un gelato. I due gestori sono cinesi, gli altri avventori maghrebini. Tutti giocano alla stessa fottuta slot machine, cercando un futuro diverso, senza capire che condividono un presente da migliorare. Lo stesso presente. Via Padova è una polaroid di questo presente, che nei money transfer e nei phone center raccontano di un pianeta in connessione. Soldi, parole, progetti, affetti. Tutto in movimento, tutto fluido, liquido. Immaginare di fermarlo è come svuotare il mare con un bicchiere.

Da questa idea nasce Via Padova è meglio di Milano, un progetto che nel 2009 vuole essere occasione per sviluppare consapevolezza: non siamo un altroveUn festival con mille eventi, che si tiene ogni anno, organizzato da italiani vecchi e nuovi. Perché i bottegai italiani che, a volte, strepitano sui giornali contro questa immigrazione violenta, vivono grazie ai nuovi italiani. Il ciabattino, il fabbro, il macellaio. I loro clienti, oggi, sono i migranti, perché i ricchi connazionali si inebriano della effimera promessa di esaustività dei centri commerciali e – per motivi economici – un tessuto di quartiere vive sempre e solo grazie a coloro che quel quartiere camminano ogni giorno. Una storia che va solo raccontata, come fanno i ragazzi dell’associazione ABCittà, con i loro libri viventi. Prenoti una storia, ti presenti, e ti siedi a chiacchierare con qualcuno che ha voglia di raccontarti i suoi sogni, le sue paure, i suoi progetti. Per scoprire, magari, che sono gli stessi.

Via Padova è quasi finita, sullo sfondo si vede Crescenzago. Lo scenario cambia. La svolta è annunciata dalla piazzetta dedicata all’imperatore Costantino, che proprio a Milano nel 313 emanò l’editto detto della tolleranza. “In nome di tale indulgenza, essi farebbero bene a pregare il loro Dio per la Nostra salute, per quella della Repubblica e per la loro città, affinché la Repubblica possa continuare ad esistere ovunque integra e loro a vivere tranquilli nelle loro case”, recitava un documento che ancora ha da insegnare. Dopo l’ultimo palazzone, dove sventolano egualmente futili una bandiera del Milan e una italiana, inizia il tratto del naviglio della Martesana. Una delle antiche vie d’acqua di Milano, quelle che vennero utilizzate per trasportare il marmo con cui è stato costruito il Duomo. Ecco che via Padova, la rimossa, la dimenticata, la temuta, si fa ancora memoria della storia di questa città. Le ville nobili si affacciano a picco sul naviglio, in una Venezia dell’anima. Nelle acque torbide di specchia un lusso, una memoria di fasti e balli, feste e corteggiamenti. Imperatori, cardinali, nobili, industriali, inventori, hanno soggiornato in quelle dimore, eleggendole a luogo di villeggiatura nel Settecento e nel primo Ottocento. Perché la storia è una signora che ha senso dell’ironia, dà e prende.

Quello che oggi si vuole ghetto, era un posto esclusivo. La zona venne definita “Riviera di Crescenzago” o addirittura “Riviera di Milano” e fu il luogo prescelto da alcuni aristocratici per costruire le loro ville. Accoglienti osterie e viali alberati rendevano ancora più attraente la zona. Perché la vita è un gioco in cui nessuno vince sempre e nessuno perde sempre. Sembra un testo di una delle canzoni dell’Orchestra di via Padova. Sette anni di vita, tre album prodotti, migliaia di concerti, diciassette musicisti da nove paesi diversi. “Via Padova dove tutto succede e tutto si dimentica in fretta, per sopravvivenza. Tutti passano con la loro storia, i loro ritmi, i loro colori, i loro sapori, ma senza fermarsi. L’Orchestra è nata con la voglia di lasciare un segno in questo luogo, un segno diverso che vuole essere una sorta di diritto di cittadinanza a chi, per esprimersi, è costretto a vagare in continuazione”, raccontano. Perché, in fondo, il viaggio più bello è quello che deve ancora iniziare. Lontano dalla terra del pregiudizio., siamo il cuore stesso del nuovo mondo, che a volte è a migliaia di chilometri da casa, altre sotto la finestra.



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