Naufragio di un barcone con più di 500 migranti a bordo, almeno ottanta le vittime, tanti i dispersi
di Christian Elia
3 ottobre 2013 – La televisione rimanda, come uno specchio, l’immagine di una soccorritrice in lacrime. Una donna, bionda, con un giubbotto rosso. Non sapremo mai chi è, ma sta piangendo dentro di noi, alla radice di quello che distingue l’anima dall’intenzione.
Lampedusa, frontiera del privilegio, avamposto abbandonato del dolore. Era appena accaduto a Scicli, oggi sono già ottanta i corpi recuperati, due bambini. Una vertigine, uno smarrimento. Quello che ha colto la natura stessa di una comunità: la capacità di saper sentire come proprie le ferite dell’altro.
Di migranti, salvo poche eccezioni, nessuno parla più. Li hanno utilizzati come una clava, in campagne elettorali e campagne dell’odio. Lampedusa resta là, da sola, in mezzo al mare. Naufraga dell’incomprensione di quel viaggio che ciascuno ritiene un diritto: quello verso un futuro migliore. Un futuro di pace, lontano da fame e guerre. Siamo qui a dirlo, come un mantra, che rischia di diventare rumore di sottofondo.
Giacomo Sferlazzo, artista e attivista, è una voce che arriva da lontano, da quella Lampedusa che in molti hanno preferito pensare africana che sentire parte di un’identità collettiva che chiama alla responsabilità, alla presa di coscienza, alla necessità di futuro condiviso.
Giacomo, oggi, scrive sul suo profilo facebook: “Ancora morti, proprio qui vicino, troppi e troppe volte ho sentito dire BASTA. Mettete una nave dalla Libia, una nave , tra le altre cose, queste persone pagano tra i mille e i tre mila euro a viaggio, alcuni pagano la propria morte, altri la propria prigionia, altri una possibilità di riscatto. E’ possibile che dopo 30 anni non si sia riuscito ancora a garantire a chi scappa da guerre, da carestie, da violenze, che spesso hanno la complicità degli stati “Occidentali” dico non si sia riusciti a garantire un viaggio “Normale”. La verità è che molti fanno affari sulla “CLANDESTINITA’ “. Nessuno deve accettare come qualcosa che può capitare, quello che accade troppo spesso nel Mediterraneo”.
Le lacrime di quella donna sono gocce di disastro, salate come ogni rancore, verso tutti coloro che si ostinano a non voler dare un nome a questi sessanta morti e a milioni di altri, affamati, profughi, rapinati di risorse e talenti.
Quelle lacrime vanno messe in un’ampolla, per il museo della memoria che a Lampedusa esiste già, ma deve diventare diffuso, condiviso, passato di mano in mano, porta a porta. Un museo della nostra vergogna, dell’Europa tutta, perché se si considera legittimo un concetto di sicurezza malsano come quello del quale siamo stati drogati, è meglio essere aggrediti, dalla realtà, dalla responsabilità. Perché non ci sarà barcone abbastanza grande per portarci lontano da questa vergogna.