[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Berra-Portr-bw.jpg[/author_image] [author_info]di Matteo Berra, da Daegu, Corea del Sud. Nato a Milano nel 1977, e’ docente di scultura a Daegu, in Corea del Sud, dove vive dal 2011. Ha esposto in Italia e all’estero in mostre personali e collettive. Il suo sito: www.matteoberra.com[/author_info] [/author]
foto di Matteo Berra
Probabilmente ciò che più lega in tempi recenti l’inconscio collettivo italiano alla Corea del Sud é naturalmente un ricordo calcistico. Nei Mondiali di Giappone e Corea del 2002, l’infame arbitro Moreno trasformava la partita in una farsa regalandola alla Corea ed eliminando l’Italia. Inutile discuterne coi coreani, nella storia scritta dai vincitori quella fu una partita regolare.
Ma c’è un altro piccolo dettaglio, una delle poche cose riguardo la Corea che é nota ai più e che viene visto dall’Occidente come una vergogna. La pratica di mangiare i cani. Non conto più le volte che mi sono state poste domande sull’argomento e il definire una mia posizione a proposito mi ha richiesto un certo tempo. Partiamo dall’assunto che sono onnivoro, ma amo molto gli animali. Ho avuto dei cani nella mia vita che ho molto amato e sono cresciuto in campagna, dove si accarezzano le vacche e le si vedono mungere, ma anche si squartano i maiali.
Rispetto alla carne ho sempre pensato che sia lecito cibarsene, ma che sia ancor più lecito che gli animali vivano una vita dignitosa prima che gliela togliamo. Anche a costo di pagare la carne dieci volte tanto e dieci volte meno cibarsene. Non trovo nessuna ipocrisia in questo, ma un dovuto rispetto.
Detto questo e volendo mantenere un atteggiamento, freddo, scientifico e possibilista, al mio partire dall’Italia dentro di me pensavo: “Dovesse succedere che mi offrano del cane, potrei anche provarlo”. Non riuscivo a negare a priori l’eventualità di questa esperienza, poiché mai mi é capitato che a causa di sentimenti io mi sia privato di un assaggio.
Quindi dopo la prima settimana in Corea ho proprio voglia di fare un giro, di uscire dal mio paesino ed andare in città e cambiare un po’ aria. La mia non ancora moglie mi raggiungerà dopo qualche tempo, quindi mi sento un po’ solo, ho bisogno di un po’ di svago. Prendo il pullman e poi il metro verso il centro città. É la prima volta, sono da solo e non so ancora leggere il coreano. Quindi quando all’altoparlante, al nome della prossima fermata, segue la traduzione inglese che mi suona “qualcosa Market” decido di scendere.
Ho una certa passione per i mercati. Questo non mi delude. I mercati coreani straripano letteralmente, sono una cornucopia incessante di merci, voci, odori, animali. Mi entusiasma particolarmente la parte del pesce, che spesso in Corea viene tenuto vivo in vasche, naturalmente assieme a polpi, molluschi, frutti di mare mai visti, taluni in foggia di vagine, altri di membri, é uno spasso ed una gioia per gli occhi.
Tutt’attorno alla zona del mercato coperto vero e proprio, tutte le varie viuzze sono dedicate ciascuna ad un prodotto diverso, quindi hai vicolo dell’anguria, rione aglio e spiazzo fior di loto, che una volta sfiorito, in Corea si mangia in vari modi. Affettato e fritto é molto buono.
Comunque, mi perdo in questo inutile girovagare domenicale, ma d’altronde non ho molto altro da fare, quando mi rendo conto che l’aria é cambiata. Sono nel retro di uno di questi vicoli e ci sono gabbie, abbastanza grandi, con dentro parecchi cani. Ma non c’é quell’aria lieta da vendita di cuccioli, anche perché sono tutti abbastanza cresciuti, e regna un silenzio pesante tra gli animali. Temo di aver capito ma proseguo comunque nella via e comincio ad incontrare bancarelle di macellai. Dal peso che mi sono sentito sullo stomaco ho capito che non avrei mai assaggiato cane. Credo che l’amore per i cani della mia infanzia e adolescenza non me lo perdonerebbe mai.
Dobbiamo partire dall’inizio, alla radice del pensiero che ordina il mondo nella mente di un coreano. Alla base sta Confucio, che non é proprio quel vecchietto coi baffetti sottili, lunghi e spioventi da cartone animato che abbiamo in mente. Da quel poco che ho capito e non ho nessuna arroganza di essere esaustivo, Confucio ha diviso la realtà per ordini di importanza. Ha messo tutto in ordine verticale in una classifica che ci spiega a chi si debba rispetto e da chi sia giusto esigerlo. In questa super classifica saliamo se siamo uomini, abbiamo i soldi, potere, anzianità e un buon lavoro, scendiamo quindi prevedibilmente se siamo donne, poveri, senza potere, giovani e con un lavoro umile. E rispetto a tutto questo gli animali si trovano proprio in fondo, degni di nessun rispetto, punto. Quindi é lecito mangiarseli, anche se ci accolgono scodinzolando tutti belli allegri.
Va inoltre detto che in Corea mangiare il cane é una questione da uomini. Il cane é considerata una carne che dona “vigore” di un certo tipo. Non é comunque comune nei ristoranti, bisogna sapere dove e quando trovarlo. Mentre in campagna non é così raro vedere qualche gabbia nei campi. E voglio subito aggiungere che anche i gatti non se la passano meglio. Sono nella gabbia di fianco a galline e conigli.
Poi per correttezza penso ai civilissimi giapponesi e le loro bistecche di balena e delfino. Quindi a un mio amico del Congo che mi decantava la delizia della carne della tartaruga marina. Infine ricordo sempre le facce inorridite di amici americani cui raccontavo pasti italianissimi a base di asino, cervo, agnello e coniglio.
Sono più o meno giunto a questa conclusione. Ad un certo punto ciascuno ha avuto fame e si é cibato di ciò che aveva intorno ed il cibo é cultura, non é qualcosa di indifferente, intercambiabile. Ogni cittadino si sente parte della propria cultura anche per le abitudini alimentari e noi italiani siamo esemplari in questo.
Al pari di qualsiasi aspetto culturale, anche il cibo crea conflitti o ammirazione tra chi ha costumi diversi. Possono nascere dibattiti e scambi e naturalmente critiche.
Nuove idee e punti di vista possono arrivare ma spesso dagli occidentali vengono espresse con modalità che non hanno il minimo rispetto per la cultura altrui, che si sentono nel giusto a giudicare. É che per sottrazione c’é sempre qualcuno che vuole aver ragione, é il “less is more” della cultura. Chi non fa una cosa si ritiene migliore di chi la fa perché in qualche modo si sente più civile ed più evoluto. Non sono proprio convinto di questo.
Alla base c’e’ un mondo molto più esposto. All’incremento della nostra velocità di spostamento e di penetrazione nei tessuti di altre culture, non é corrisposta, a mio avviso per fortuna, un’uguale velocità di mutazione di tali società. E non credo neanche che sia nostro dovere accelerare quest’ultimo processo. Saranno i propri esponenti che autonomamente decideranno se e come modificare un costume che é molto di più di una semplice scelta alimentare. È la conseguenza di un punto di vista sul mondo che in questo caso denota la cultura coreana come tale. E qualora tutte le culture divengano omogenee, non avrà più senso viaggiare e saremo tutti più poveri.
Penso che queste riflessioni potranno suscitare delle reazioni anche forti, ma spero di aver fornito elementi utili per riflettere su di un problema che apparentemente triviale, é in realtà molto complesso. Soprattutto se inserito nel contesto attuale di permeabilità e conflitto delle culture.
E non dimentichiamoci che nel dopo guerra anche da noi non si guardava in faccia a nessuno quando non c’era niente da mangiare.