Disegnando Mappe Mentali di Milano
di Michele Majidi
Esplorazione del 28 maggio 2016
Oggi – guidati dalle suggestioni di Adriano Cancellieri e Nausicaa Pezzoni – siamo stati stimolati a condurre una esplorazione nel quartiere di San Siro, dalla parti di piazzale Selinunte. Strumenti a nostra disposizione, un’allegra pletora di matite, penne, pastelli, e pennarelli variopinti, con annessi fogli di carta formato A4, pronti a essere riempiti. Obiettivo di questa esplorazione, trovare abitanti del quartiere che vogliano riempire questi fogli in un modo speciale: disegnando la “mappa mentale” che hanno di Milano. Stavolta infatti proveremo a sperimentare l’uso di questo strumento – la mappa – per interagire con il nostro contesto di esplorazione, cercando di far sì che il foglio diventi pretesto per raccogliere e raccontare tracce di intercultura, lavorando sulla dimensione della percezione dello spazio.
Già, ma che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di mappa mentale?
Mappa mentale come immagine di città
Qui torniamo indietro nel tempo di un giorno, a quando noi di Potlach, in particolare grazie a Nausicaa Pezzoni (che alle mappe mentali ha dedicato una ricerca e un libro La città sradicata. Geografie dell’abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano) abbiamo approfondito la lieta conoscenza di Kevin Lynch. Kevin Lynch (1918 – 1984) è un urbanista statunitense il cui lavoro più influente è The Image of the City, pubblicato nel 1960: uno studio sulla percezione umana delle città.
Grazie a Lynch, scopriamo che una mappa mentale è la percezione personale che ciascun individuo ha del proprio ambiente di interazione: nel nostro caso, della propria città. Pur essendo le percezioni umane potenzialmente infinite, Lynch segnala che i cittadini percepiscono il proprio circondario in modi prevedibili, formando mappe mentali con cinque elementi: margini (luoghi percepiti come confini: pensate a spiagge, ferrovie, barriere che bloccano gli spostamenti), percorsi (gli spostamenti abituali dei cittadini, le strade su cui viaggiano), nodi (i luoghi più frequentati dai cittadini), spazi dell’abitare (dove vivono i cittadini, grandi sezioni della città distinte da una identità o carattere) e riferimenti (luoghi identificabili velocemente che agiscono come punti di riferimento esterni – ad esempio, un monumento particolarmente famoso).
Lynch, come ci racconta Nausicaa che a sua volta ha sperimentato questo metodo (esito del suo lavoro il libro La città sradicata), è riuscito a raggruppare un gran numero di mappe mentali di Los Angeles, Boston e Jersey City, intervistando persone incontrate per strada e stimolando la loro memoria con queste domande:
Quali sono i luoghi in cui ti senti a tuo agio, in cui ti senti al sicuro, in cui ti senti riconosciuto?
Dove abiti? Dove hai abitato in precedenza?
Dove ti senti a disagio/respinto? Dove vorresti andare ma non puoi?
Quali sono i percorsi da te più frequentati?
Quali sono i luoghi in cui ti confronti con gli altri? Quali sono i luoghi che ti piace esplorare?
La conclusione tratta da queste interviste è che una buona immagine ambientale di una città è strettamente collegata a un’importante sensazione di sicurezza emotiva.
Queste domande sono state quindi da noi adottate per la nostra indagine su San Siro. Ma qual è esattamente la motivazione che ci guida nel voler far emergere delle mappe mentali di Milano? E perché vogliamo focalizzarci sulle mappe mentali di migranti?
Mappe mentali e bisogni spaziali
Le mappe mentali possono diventare una forma di espressione dei bisogni spaziali di ogni essere umano. Ricomponiamo insieme le suggestioni apportate da Nausicaa con quelle che ci ha offerto Adriano Cancellieri. Adriano ci ha parlato delle teorie di David Seamon, ricercatore dell’Università del Kansas. Abbiamo scoperto che i principali bisogni spaziali possono essere raggruppati in tre macro-categorie: il possesso di spazi di movimento, spazi di rifugio/comfort, e spazi di incontro/esplorazione.
Nel caso di migranti (sia che siano arrivati recentemente in città sia che siano già radicati) il tentativo di costruire questi spazi non preclude l’integrazione, anzi: la costruzione di spazi di rifugio e comfort in cui possano esercitare il proprio diritto all’indifferenza – il diritto a non essere discriminati e ostacolati per la propria provenienza/cultura – è vitale per una città che voglia dirsi veramente inclusiva. Questo diritto all’indifferenza tiene per mano un egualmente importante diritto alla differenza: un diritto al riconoscimento delle differenze culturali che compongono il mosaico della città contemporanea, al vivere le proprie identità alla luce del sole, al riparo da oppressione e tentativi di assimilazione violenta. Accettare i diritti all’indifferenza e alla differenza significa abbracciare l’ambivalenza umana, e riconoscere nel loro punto di incontro due processi che alla fine esprimono lo stesso bisogno: quello di una persona “ai margini” di vivere al pieno le opportunità e possibilità esistenziali che la città offre a una persona parte di un discorso “dominante”.
Vogliamo esplorare direttamente degli esempi di come Milano venga percepita dagli occhi di persone non appartenenti a un discorso maggioritario: nel nostro piccolo, siamo curiosi di esplorare quali caratteristiche della città determinino la percezione di luoghi di comfort o viceversa di respingimento. Combinando il metodo di Lynch e l’attenzione all’ambivalenza, ci tuffiamo in questa nuova esplorazione: attingere alla memoria spontanea dei cittadini nel descrivere e rappresentare in maniera immediata elementi di soddisfazione e disagio nei confronti degli spazi urbani. Il luogo scelto per l’esplorazione ci sembra perfetto. San Siro, uno dei quartieri con la più alta percentuale di abitanti di origine straniera è da tempo oggetto di rappresentazioni fortemente stigmatizzanti. Ci stimola l’idea di provare a costruire una nostra, nuova, visione di San Siro. Fatta dalle molteplici prospettive di chi lo abita. Decidiamo di farci spiazzare dallo strumento del disegno, curiosi di scoprire quante San Siro diverse disegneranno con noi i nostri interlocutori.
Amina
Incontriamo Amina tra le mura di Mapping San Siro, che ci ospita oggi: uno spazio di ricerca del Politecnico che indaga sulle dinamiche/relazioni tra comunità e spazi urbani nel quadrilatero di edilizia pubblica che si estende attorno a Piazzale Selinunte. Amina è una amichevole donna sui quarant’anni di Casablanca, Marocco. Mentre condivide con noi un fenomenale cous cous preparato assieme ad alcune amiche amiche, guarda con un misto di curiosità e divertimento il grande foglio bianco che si appresta a riempire, incalzata dalle nostre domande. Ci racconta di vivere in Italia da 19 anni; i suoi primi 6 mesi li ha passati a Perugia, dopodiché è sempre stata a Milano, città dove ha conosciuto suo marito (di nazionalità egiziana) e dove sta crescendo due figli.
Alla domanda «Dove abiti?», Amina ride e risponde rapida: «La mia casa è tutto il quartiere». Il quartiere di San Siro, nella cui vita comunitaria Amina si impegna molto. Un quartiere che ci indica sul foglio (tracciando il primo segnale della propria mappa mentale) come un imponente rettangolo grigio scuro. «Questa periferia è un po’ scura, e proviamo ogni giorno a portare un po’ di luce».
In mezzo al grigiore del quartiere, disegna un quadrato di un colore rosso acceso: questo è il Laboratorio di quartiere, «Un posto aperto in cui facciamo tante cose insieme». Uno dei luoghi nei quali Amina organizza ritrovi di donne del quartiere, costruendo uno spazio di condivisione e supporto per donne che spesso si ritrovano «sole in casa e depresse». Il luogo cardine in cui Amina si sente a proprio agio è la scuola dei figli, l’Istituto Luigi Cadorna, dove ha creato un buon rapporto con molte altre madri. Quando le chiediamo dove non si sente a proprio agio, Amina aggrotta le sopracciglia e risponde: «Dove la gente non mi conosce». I percorsi frequenti per Amina si estendono tra le isole verdi di Trenno e Bosco in Città, la scuola dei figli e l’IperCoop del Portello.
Alla richiesta di parlarci dei «luoghi di esplorazione e confronto», sorride gentilmente, fermandosi un momento a pensare. «A volte vado in Duomo con le amiche. Ci piace camminare e vedere le vetrine in quella zona. Spesso veniamo scambiate per turiste del Golfo, per Saudite, e trattate in modi molto carini. Modi di riguardo». Prima di stabilirsi a San Siro, Amina e la sua famiglia hanno vissuto in via Mosè Bianchi. I suoi ricordi di quella zona sono «di un posto con molte persone ricche, spesso chiuse tra di loro. Lì percepivo più benessere materiale, si, ma anche più tristezza che qui, tra di loro sono tristi. Non parlano, un vicino nemmeno conosce l’altro vicino». Da quando la famiglia si è trasferita a San Siro, Amina si sente immersa in una dimensione «più umana», di aiuto reciproco.
Amina conclude l’intervista, e la mappa, parlandoci un po’ di suo marito. Ci rivela che è egiziano, e che «in Marocco ci facciamo spesso una idea molto romantica degli egiziani per via dei loro film, ma lasciatemi dire una cosa: i film egiziani ingannano! Non sono poi così romantici, sono semplicemente normali», dice ridendo affettuosamente. «La nostra cultura marocchina forse è un po’ più ordinata. Ma non dite a mio marito che ho detto questo!»
Adrian
Rotto il ghiaccio con Amina, inizia per noi l’esplorazione vera e propria. Non più immersi nell’atmosfera “protetta” del laboratorio, in gruppi di due o tre persone ci buttiamo nell’esplorazione del quartiere, alla ricerca di qualcuno che voglia disegnare con noi la propria mappa mentale. Dopo di tentativi andati a vuoto, io e Marta ci avviciniamo a due uomini che stanno chiacchierando seduti su un muretto dei giardini di Piazzale Selinunte. Uno dei due indossa una maglia dell’Inter e culla una bottiglia di birra. Alla nostra richiesta di poter fare alcune domande per una ricerca, ci rivolge un sorriso timido e dice qualcosa in una lingua a noi sconosciuta al suo amico. Quest’ultimo si rivolge a noi: «Certo, fate a me le domande». È così che incontriamo Adrian. 34 anni, di cittadinanza rumena e origine rom, Adrian vive in Italia dal 2000 («Già 16 anni, come sono volati!») e viene spesso in Piazzale Selinunte per incontrare amici e membri della sua comunità.
La mappa mentale di Adrian, a differenza di quella di Amina, non è piena di colori o simboli. Ci sono pochi, essenziali tratti di penna che tratteggiano linee rette tra punti diversi. Ogni linea retta rappresenta gli spostamenti che Adrian ha fatto negli ultimi 16 anni tra diversi campi rom a Milano, fino ad arrivare alla sua casa attuale, a Baggio. I luoghi dell’abitare di Adrian sono rappresentati da tre punti: il campo nomadi di via Triboniano, quello di via Novara, la sua casa a Baggio. A ogni campo nomadi in cui Adrian ha vissuto corrisponde uno sgombero diverso da parte della polizia.
Alla domanda «Dove ti senti a tuo agio?», Adrian risponde che può sentirsi a suo agio ovunque, basta che non abbia problemi con altre persone. I suoi luoghi di rifugio possono comprendere la città intera, così come i «luoghi di disagio e confine» non esistono, in quanto «Dove non mi danno problemi, io non ho problemi». I percorsi più frequenti condotti da Adrian sono tutti relazionati con il suo lavoro di autista per una ditta di traslochi. Riferimento fisso, il parcheggio di fronte al Cimitero Maggiore, dove va quasi ogni domenica a giocare a calcio con gli amici. «Ogni volta che finiamo di giocare, ci assicuriamo che il posto sia più pulito e ordinato di quando siamo arrivati. Mettiamo in ordine intorno alle panchine, non deve esserci nemmeno una carta», ci racconta. «Non vogliamo dare la solita idea che noi rom siamo tutti delinquenti, che facciamo solo casino. Vogliamo far vedere che siamo persone normali anche noi, con valori non diversi dai vostri. Per questo mi dà molto fastidio quando vedo alcuni miei connazionali infrangere la legge o creare problemi: è triste come queste poche persone creino immagini negative su tutti noi che vogliamo vivere tranquilli e onestamente». Il piccolo parco di Piazzale Selinunte è segnato da Adrian sia tra i luoghi di confronto e esplorazione, che tra quelli di rifugio. «Qui si ritrova spesso una parte della mia comunità, e qui cerchiamo di risolvere le nostre dispute in maniera pacifica. Quando vediamo che qualcuno di noi ha infranto delle regole di buona convivenza, gli diamo un’altra possibilità. Se questa possibilità non viene rispettata, vengono espulsi dalla nostra comunità». A questo punto compare tra noi il figlio di Adrian, un bambino vivace di sette anni che alterna la sua attenzione tra dei fili d’erba del giardino e il cellulare del padre.