Riprendiamo la città. Darsena

Morire nel mio paese

di Nazarè De Souza Xavier

Esplorazione del 9 luglio 2016

La giornata era bella, calda, c’era un’aria pesante. Ciò che la rendeva piacevole era il nostro stare insieme, per l’incontro di Potlach nella casetta verde del Giambellino.
Eravamo entusiasti e anche dubbiosi nei confronti della giornata che ci aspettava, con tante cose da mettere in pratica. Il compito del giorno era fare alcune interviste in giro per Milano, ma sempre seguendo il metodo potlach e per quel giorno era stabilito un tema: crescere. Questo tema dovevamo svilupparlo in forma dinamica con l’utilizzo delle carte Dixit durante l’intervista.
Prima di metterlo in azione sul campo, il metodo dell’intervista era stato provato su di noi del gruppo. L’ho trovato molto divertente, ma allo stesso tempo imbarazzante perché ci portava in diverse dimensioni, pensieri ed emozioni intimi.

Prova fatta. E abbiamo visto che funzionava il metodo indiretto ovvero fare le interviste utilizzando l’immagine delle carte per stimolare il nostro intervistato(a). Ogni gruppo era formato da quattro persone, pronte per andare alla ricerca di storie interessanti in vari punti della città di Milano, attrezzati con telecamere, attrezzi audio , luci e le carte.

Il nostro gruppo aveva già in mente la persona da intervistare: era la mamma di una componente del progetto Potlach, Kelly, una ragazza sudamericana cresciuta a Milano. Quel giorno lei non era presente. Così l’abbiamo contattata per telefono per condividere l’idea e sapere dove fosse esattamente il chiosco della sua mamma, che sapevamo essere sui Navigli e chiederle se potevamo andare lì. Kelly ha trovato l’idea bellissima e ha risposto che assolutamente potevamo andare senza alcun problema.

Dopo la telefonata eravamo contentissimi, l’abbiamo preso come un colpo di fortuna, perché non avevamo un’altra idea oltre a quella. E poi faceva troppo caldo e non avevamo la voglia di andare di qua e di là alla ricerca di persone da intervistare. Siamo arrivati in zona Navigli, dove ci sono i chioschi, sulla Darsena, vicino a Porta Ticinese. Siccome non avevamo mai visto la mamma di Kelly, dovevamo provare ad indovinare chi fosse. Subito abbiamo visto una signora di colore che assomigliava tantissimo a Kelly: uno solo di noi doveva andare a chiederle se fosse davvero sua mamma, per eliminare la nostra incertezza.

Andare tutti insieme, in gruppo, poteva essere vissuto come una “minaccia”. È toccato a me ovviamente andare: essendo io sudamericana e straniera “l’impatto” sarebbe stato minore. E con me è venuta Erika, per darci fiducia a vicenda e trasmettere sicurezza alla signora. Abbiamo salutato la signora e lei ci ha confermato di essere effettivamente la mamma di Kelly.

Io attratta dai colori, i profumi dei frutti, i legumi e le spezie tropicali venduti nel chiosco mi sono perduta subito, dimenticandomi di dire il perché della nostra visita. Ma Erika con saggezza, come sempre sa fare, si è preoccupata di dire tutto. E con nostra sorpresa la mamma di Kelly non ha accettato di essere intervistata con la telecamera. Sono intervenuta per cercare di convincerla usando il mio atteggiamento caldo e allegro, proprio di una sudamericana dotata di axè (energia) di Bahia-Brasile, senza avere vergogna o farmi scrupolo di insistere con lei perché partecipasse alla nostra intervista. Ho coinvolto anche suo figlio che era lì presente, ho fatto a lei dei complimenti su quanto fosse bello suo figlio, dicendo anche che se non fossi stata sposata avrei voluto corteggiarlo.
Ma tutto questo, alla fine, non ha avuto effetto sulla decisione della signora e noi siamo andate via di lì, tristi, a dare la notizia alla troupe e pensare ad un piano B. Subito ci siamo messi in azione chiedendo alla gente intorno di partecipare alla nostra intervista, ma con risultati negativi.

A questo punto il gruppo era demotivato: da un colpo di fortuna a un risultato di sfortuna. Cosa fare? Nella mia testa non accettavo l’idea di tornare alla casetta verde senza niente, senza interviste, senza storie… il mio ultimo tentativo è stato provare a chiedere ad una signora che era seduta sul prato, vicino ai chioschi, con un bambino (suo nipote), spensierata. Anche lei sudamericana, del Perù. Ho parlato con lei del nostro progetto e dell’esercizio che dovevamo fare. E lei ha accettato, così com’era, spensierata, senza alcun rifiuto.

Ho chiamato Erika perché le spiegasse il progetto nel dettaglio. Subito dopo tutta la troupe si è avvicinata per dare inizio al lavoro di ripresa, ognuno con il suo compito. Mancava da decidere chi avrebbe fatto le domande alla signora, usando il pretesto delle carte. Il gruppo ha lasciato questo compito a me perché avevo innescato la relazione con lei, così sarebbe stato tutto più fluido. Ho accettato con po’ di paura questo compito perché era una responsabilità molto delicata: riuscire a fare delle domande in collegamento con le carte, la parola crescere, entrando nella vita privata e sentimentale della signora, essendo chiara ma non invasiva.
Ho iniziato spiegandole il gioco e poi sono partita con le domande. Man mano che la signora Caterina entrava nel gioco anche altre persone del gruppo, Alfred e Marta, si sono sentite libere di fare alcune domande.

Alla fine dell’intervista della signora Caterina è nato un racconto di nostalgia: da noi in Brasile si direbbe saudade, perché non ti porta sofferenze o dolore, ti porta una sensazione di… saudade. È complicato spiegare: anche il bravo poeta e cantante brasiliano, Vinicius de Morais, famoso in tutto il mondo, non è riuscito a trovare una parola in italiano che la definisse perfettamente. Perciò saudade sarebbe nostalgia, ma non definitivamente.

Pertanto era nostalgia della sua terra, del suo passato. Che l’ha portata a crescere vincendo le difficoltà affrontate nel suo paese e contro cui continua a lottare in Italia, dove ha trovato un supporto per vivere più o meno bene economicamente con la sua famiglia, alimentata dalla speranza di tornare un giorno nella sua terra e morire lì.

Morire nella terra di origine, mi sono ritrovata in questa frase della signora Caterina. Penso che anche altri stranieri come noi siano legati a questa frase. A prescindere dalla nostra origine, coscientemente o incoscientemente portiamo dentro di noi la paura di morire in terra straniera, senza mai avere la possibilità di tornare nella nostra patria. Oppure rimanere senza nessuna patria.

Finita l’intervista eravamo contenti di avere avuto la signora Caterina come nostra intervistata. Anzi, lei è stata il nostro vero e proprio colpo di fortuna, ritrovato dopo la delusione precedente. E per di più siamo rimasti sempre nella zona sudamericana: direi che la giornata ha seguito il flusso made in sud.
A conclusione del lavoro bisognava tornare alla casetta verde, casa base di Potlach, e condividere il materiale con tutto il gruppo, per fare commenti tecnici e non tecnici rispetto al lavoro svolto. Io purtroppo ho dovuto lasciare il gruppo dopo l’intervista di Caterina, perciò non so dire quali commenti abbiano fatto gli altri sul nostro lavoro. So dire che la frase «morire nel mio paese» mi ha seguito nel pensiero, di ritorno a casa. Durante il tragitto rivolgevo a me stessa commenti e domande, senza mai avere una risposta chiara… magari morire nel paese di origine sarà una saudade non vissuta, persa nei nostri infiniti desideri mai realizzati oppure… chi lo sa, stiamo a vedere.

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1 comment

  1. Val

    Bravissima Nazare. Ho letto l’articolo con molta attenzione. Anche a me è venuta questa domanda e pensiero. Morire in terra lontana? O mio paese? A Deus dará. Come se parla in brasiliano. Rs. Auguri Nazare. Bacione. VAL

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