Raccontami

Spazi di vita.
Note a margine del terzo censimento dei senza dimora che vivono per le strade di Milano

di Elena Maranghi

Seconda sera

La seconda giornata del Censimento “RacContami” organizzato dalla Fondazione De Benedetti insieme con l’Università Bocconi e il Comune di Milano è dedicata allo svolgimento di questionari in strada.

Ai volontari ingaggiati – sulla base del conteggio realizzato la sera precedente e sistematizzato dai ricercatori durante la notte – viene assegnati un numero di questionari da svolgere.

Il questionario è piuttosto lungo e ha l’obiettivo di raccogliere una serie di dati relativi ai profili delle persone che vivono in strada.
Paolo ed io arriviamo direttamente dal lavoro, addirittura in anticipo.
Il punto di incontro è diverso dalla sera precedente: si tratta della sede della Croce Rossa.

Dopo un momento di confusione iniziale – i volontari sono tanti e gestiti a livello centrale – vengono formate le squadre e assegnato il materiale: la borsa contenente le pettorine, le indicazioni relative alla localizzazione delle persone, una copia cartacea del questionario e la busta con dentro i buoni pasto che potremo consegnare solo se il questionario verrà svolto per intero.

Diversamente dal giorno precedente scambiamo poche parole con i nostri compagni “di squadra”. Sono due ragazzi giovani, di poco più piccoli di noi. Uno viene dal sud e lavora a Milano, l’altro abita in provincia. Come Paolo ed io, sono colleghi. Fanno i rappresentanti di auto e ce lo dicono subito, non appena arriviamo davanti alla loro macchina: un grande suv molto accessoriato. “Non è nostro, è del lavoro”, si scherniscono.
Mi colpiscono, come mi ha colpito Marta, la nostra compagna della sera precedente. Lei, una signora sessantenne, inquieta, appassionata di musica tecno, con un passato pieno di rimpianti e un estremo bisogno di raccontare la propria storia. Loro, due rappresentanti di auto, precari e taciturni, che una sera a settimana fanno i volontari distribuendo coperte e qualche merendina o bevanda calda a chi vive in strada. Persone che difficilmente incontrerei nella mia quotidianità. Così come difficilmente attraverserei – a quest’ora – alcuni dei luoghi che ieri e oggi troviamo sulla nostra strada: i bar dell’estrema periferia, gonfi a tarda notte di giovani e macchinette; i nuovi complessi residenziali al margine della città, illuminati a giorno e vuoti.

Scambiando poche parole raggiungiamo il quartiere a nord di Milano, dove è localizzata la prima persona che dobbiamo provare a intervistare. Forse siamo tutti un po’ in tensione per via dei questionari: molte domande, alcune delicate, alcune che io personalmente non ho molta voglia di porre.

Sulla scheda scarne indicazioni per raggiungere “l’obiettivo”: “Uomo che dorme in bar self-service” e il nome della via con il numero civico. Lì per lì non collego le parole “bar self-service” ad un luogo preciso. Quando ci parcheggiamo davanti mi diventa chiaro di cosa si tratti. Uno di quei posti strani che da qualche anno a questa parte hanno iniziato a popolare le città: ambienti aperti sulla strada, illuminati giorno e notte, dove sono posizionati distributori automatici di cibo e bevande. Mi sono sempre chiesta il senso di questi anfratti luminosi e asettici, nemici dei bar e che riducono a zero l’interazione tra le persone. Sono quasi tutti uguali. Alcuni, come questo, sono dotati di filodiffusione musicale, ventiquattro ore su ventiquattro.

Riesco a immaginare pochi altri luoghi della città così inadatti alla vita di una persona, a ospitarne il sonno. Ogni cosa è alienante: la musica, la luce, il potenziale via vai degli avventori. Eppure sì, eccolo lì, in un angolo: dietro ai cartoni si distingue appena, ma chiaramente, una persona.

Presumibilmente sta dormendo e subito mi viene da pensare a quanto sia difficile prendere sonno lì dentro. L’idea di svegliarlo mi mette estremamente a disagio.
Di comune accordo decidiamo di cercare un bar per prendere qualcosa di caldo da poter offrire all’uomo – sarà poi davvero un uomo? potrebbe essere una donna? – che dobbiamo intervistare. Almeno, forse, mitigherà il fastidio di essere disturbato mentre già dorme.
Il bar in cui entriamo è gestito da una coppia di origine africana. Stanno per chiudere: lui ultima qualche lavoretto, lei ancora dietro al bancone accetta comunque con un sorriso di prepararci qualcosa da portare via. Le spiego brevemente che non è per noi e le chiedo qualche informazioni sulla persona che vive appena più avanti, sull’altro lato della strada.
“Non parla con nessuno, non vuole cibo, non vuole aiuto. Un mese fa il proprietario delle macchinette gli ha buttato via tutte le lenzuola, dice che gli fa perdere i soldi stando lì. Un vicino ha provato a riportagliene di nuove, dopo. Non le ha volute, ha buttato tutto via. Non so cosa mangi. Anche noi abbiamo provato a portagli qualcosa, ma non vuole niente.”
Porgendoci le bustine di camomilla aggiunge: “E poi è aggressivo, magari può fare del male… non so, provate, ma state attenti…”
Penso a Joe, il ragazzo che viveva vicino a casa mia, a Roma e che non si spostava mai. Penso alle settimane che ci ho messo a farmi rivolgere la parola. Lo rivedo buttare via tutto: coperte, giacche, oltre il parapetto del fiume, prima che iniziassimo a diventare amici. Penso a quanto tempo ci vuole. Perché una persona che è stata dimenticata accetti che qualcuno si ricordi di lei.

I nostri compagni vogliono provare lo stesso a fare il questionario. Ci avviciniamo titubanti, sulla soglia. Tra i cartoni sta sdraiato l’uomo, con i piedi avvolti nella plastica e la faccia arrotolata dentro una sciarpa.

Uno di loro fa un passo in più: “Salve, scusi, salve, ehi…”
Un mantra che prova a ripetere per un po’ di volte. “Le abbiamo portato qualcosa di caldo…”
Dopo alcuni tentativi dall’uomo arriva un “No”, secco. Qualche altra parola in una lingua incomprensibile che me lo fa immaginare straniero.
Il nostro compagno ci prova ancora alcune volte.
Alla fine dai cartoni arriva verso di noi una bottiglia di plastica, vuota: estremo gesto di diniego, di stanchezza. Lo lasciamo in pace.
Compiliamo la scheda online, prevista anche in caso non si riesca a svolgere il questionario. Discutiamo su alcuni dati da inserire: laddove non siamo certi sarebbe meglio non azzardare interpretazioni.
Non faremo questionari, quella sera. Non troviamo le altre due persone che erano state segnalate il giorno precedente. Per un disguido tecnico non riescono ad assegnarcene altre.
Riconsegniamo il materiale e i buoni pasto alla sede della Croce Rossa. I volontari ci offrono un tè, ma io e Paolo abbiamo un po’ di strada da fare per tornare a casa e così ringraziamo i nostri compagni e ce ne andiamo via.
L’immagine di quell’uomo mi tornerà in mente varie volte, nei giorni successivi.
Un uomo a cui il freddo ha trasformato i piedi in plastica e a cui la città ha cucito sul viso una sciarpa di lana.
Un uomo arrivato da chissà dove e chissà come finito proprio lì.
Un uomo che ha perso il nome da qualche parte. Che non vuole esistere per nessuno, eppure è vivo.

Penso agli spazi della città, come quello in cui ha deciso di vivere. Così inospitali, ostili. Penso a quanto mi piacerebbe una città capace di spazi diversi. O forse solo capace di non strappare via le lenzuola a chi dorme con le luci in faccia, cercando un po’ di pace. Capace di insistere non tanto con le domande, ma con il tempo, la costanza, la pazienza.

I primi risultati del Censimento sono disponibili qui

Qui il racconto della prima sera, a cura di Paolo Grassi, uscito martedì 3 aprile su Q Code Town

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