Il quartiere Flaminio come corpo da decifrare: le voci di coloro che l’hanno ispirato, immaginato, costruito si mescolano a quelle degli abitanti del quartiere diventando una cartografia narrativa raccontata in una performance.
di Elisa Strinna
Cartografie latenti nasce nel contesto della mostra Open Museum Open City a cura di Hou Hanru, tenutasi al MAXXI di Roma dal 23 ottobre al 30 novembre 2014.
Nel realizzare la mostra ogni opera plastica è stata esclusa, il museo sgomberato della sua collezione. Installazioni audio, opere performative, proiezioni video, trasmissioni sonore, conferenze e dibattiti riempivano l’etere dello spazio creato da Zaha Hadid. Cartografie latenti prende vita all’interno della sezione “Rivelazioni”, nel ciclo di “Narrazioni” che, come scrive Luigia Lonardelli, attraverso “lo storytelling, nelle sue forme primigenie […] vuole recuperare […] la funzione salvifica della parola” .
Il MAXXI realizzato da Zaha Hadid si discosta profondamente dalle architetture romane.
“Il cemento armato” racconta Pier Luigi Nervi nella trasmissione televisiva Ritratti contemporanei del 1960 è: “un materiale che si può fabbricare in quantità illimitate e deriva da materie prime che sono diffuse […] su tutto il globo […] si aggiunga poi la straordinaria capacità resistente […] e questo le darà la misura di quale campo, praticamente illimitato, si apre al progettista di opere in cemento armato”. Le qualità del materiale descritte da Nervi permettono alla Hadid di giocare con volumi e curve creando un’architettura che evoca dinamismo, movimento, sfiorando la vertigine. Il materiale e le forme, lontane dalla tradizione italiana, proiettano la costruzione in uno spazio futuristico.
E’ un museo che non rispecchia il canonico spazio espositivo. Nella sua apparente instabilità, sembra opporsi all’immobilità della musealizzazione, invitandoci all’azione, a vivere un tempo contemporaneo.
Il MAXXI è uno spazio di riferimento per una comunità internazionale, ma sorge in un contesto locale, come quello romano e in particolare quello del quartiere Flaminio. Nel momento in cui mi è stato chiesto di prendere parte a “Narrazioni” questa dicotomia tra locale e globale mi risultava particolarmente evidente.
Presa dalla necessità dicapire se questa dicotomia fosse vissuta come una frattura o piuttosto esistesse una continuità tra la vita del museo e la vita del quartiere, cominciai ad intervistare chi abitava la zona investigando il loro rapporto non tanto con l’istituzione, ma piuttosto con le architetture, che nel contesto si facevano portatrici di varie correnti di pensiero. Ciò che m’incuriosiva era capire come gli abitanti avevano vissuto ed esperito le varie strutture. Quale fosse la relazione sviluppata con l’aspetto non solo funzionale, ma anche artistico ed ideologico delle diverse proposte; se esisteva un conflitto, ed eventualmente quale fosse la natura di questo conflitto.
Il quartiere Flaminio è adiacente al centro storico di Roma, ma di edificazione recente. La sua principale riqualificazione è successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Nella zona, prima della guerra, era stato costruito il Foro Italico di Mussolini; struttura che ha poi influenzato la costruzione di altri edifici legati allo sport, in particolare durante le Olimpiadi del 1960. Nel quartiere coesistevano diverse classi sociali, la gente povera si mescolava alla piccola e media borghesia. Dopo la guerra sono stati fabbricati diversi complessi abitativi per gli impiegati statali che poi sono diventati case popolari. Inoltre, il territorio non totalmente edificato e la vicinanza con il centro della città, l’hanno reso idoneo, in tempi più recenti, per erigere strutture adibite alla promozione culturale. Studiando il territorio ho deciso di focalizzare il lavoro in particolare su una zona del quartiere e cioè il Villaggio Olimpico.
Il complesso, realizzato in pieno stile razionalista, può essere interpretato come simbolo d’un desiderio della città di partecipare agli standard della modernità e dello sviluppo post-bellico. Realizzato da una schiera di architetti come Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Luigi Moretti si rifà ai cinque punti di Le Corbusier: le finestre a nastro, i tetti giardino, la pianta libera, la facciata libera ed i pilotis.
Edificato in meno di due anni al posto di una baraccopoli per ospitare gli atleti delle Olimpiadi del 1960 è stato poi destinato agli impiegati dell’INCIS. Il desiderio degli architetti era quello di ottenere, come dice Moretti: “un quartiere di forme vive, organiche, non scatolari, eccitanti una certa gaiezza.” Un quartiere che si riallacciasse allo spirito positivista del periodo pre-bellico, che echeggiasse quell’idealismo perfettamente espresso negli slogan di Le Corbusier, uno spirito nuovo, lo spirito della produzione in serie, lo spirito di abitare case in serie, in cui sia possibile ritrovare le basi umane, la scala umana, la necessità tipo, la funzione tipo, l’emozione tipo. Uno spirito che definisce l’uomo comune, creando uno standard applicabile ovunque a chiunque, precursore del mondo globalizzato che oggi abitiamo, e che trova piena espressione nei non-luoghi definiti da Marc Auge.
Nella mia esperienza d’intervistatrice tra gli abitanti storici del Villaggio ho avuto la fortuna di incontrare Vincenzo Colella, uomo di 99 anni di profonda coerenza e forza etica. Reduce della Seconda Guerra Mondiale, nonostante l’età Vincenzo è persona lucidissima. Si ricordava ogni nome dei suoi commilitoni, anche di quelli con cui aveva condiviso un’unica notte di cella prima che venissero fucilati. Aveva una capacità di narrazione penetrante, la guerra acquistava concretezza, le sue parole prive di epica ne svelavano la totale atrocità.
Annullando la distanza storica riportava la distruzione e la brutalità sul piano dell’esperienza diretta, squarciando una ferita ontologica sulla reale natura dell’animo umano.
Se le patologie private si manifestano sugli spazi intimi dell’uomo, sul suo corpo, le patologie collettive si manifestano negli spazi sociali. Le parole di Vincenzo dipingevano una società fragile, meschina, incerta, che non aveva ancora esorcizzato le atrocità della guerra nonostante lo sforzo collettivo per dimenticare, o forse parzialmente occultare il dolore e gli errori che avevano prodotto una tale tragedia.
Per quanto gli angoli retti della modernità s’impegnassero a riorganizzare una vita che aveva perso ogni coerenza, a portare luce dove protagonista è il buio, il quartiere e la città di Roma hanno continuato a confrontarsi con i residui della storia. Le luci al neon del Villaggio invece di essere una nuova e accattivante invenzione appaiono a Vincenzo le luci di un cimitero “Quando arrivammo qui che c’erano le prime luci al neon quelle luci azzurrognole, ma a me sembravano più le luci del cimitero, sembrava proprio un cimitero. Queste case sui piloni, intorno, il vuoto, totale”. I tentativi di aggregazione sono ricordati come fallimentari: “Quando siamo arrivati avevo un po’ di presunzione, dissi: siamo una nuova comunità cerchiamo di metterci insieme, cerchiamo di fare che questa zona limitrofa, isolata, diventi un centro famigliare dove ognuno possa esercitare i suoi diritti. Apriti cielo. Invidie, meschinità, grettezza, miseria, dico proprio miseria umana non povertà.”
Sono i bambini forse che godono maggiormente del carattere innovativo che appartiene alle case su palafitta ideate dall’architetto francese. “Giocavamo moltissimo nei pilotis. Per noi bambini questi cortili ricavati dai porticati erano un mondo stupendo dove giocare liberamente” racconta Rita che arriva al villaggio nei primi anni Sessanta all’età di sei anni: “facevamo le bande, le guerre, le sassate o facevamo addirittura le squadre di pulizia delle colonne, le pulivamo con le pezzette e l’acqua, era un po’ come essere responsabili, sentirsi partecipi alla vita della comunità.”
Ma le case erano state costruite in velocità, risparmiando sui costi di produzione, racconta sempre Rita: “Le case erano freddissime e molto umide, c’erano spifferi, pavimenti malfatti, intonaci che si staccavano. D’inverno il vento s’infilava sotto questi portici e saliva su. Le pareti sono tutt’ora molto sottili. Difatti ho il ricordo di una febbre reumatica molto forte.”
Nonostante ciò il Villaggio viene vissuto da chi ci è cresciuto come luogo tale da “creare aggregazione, è stato costruito come se fosse una piccola realtà, un piccolo paese in cui tutti finiscono per conoscersi. Avere la tranquillità che non sei sola nella comunità vuol dire tanto…” mi spiegava Roberta, una donna sui quarant’anni nata nel quartiere. Ma il Villaggio Olimpico ha vissuto anche momenti particolarmente bui. Esauritasi la carica rivoluzionaria degli anni Settanta, sedata parzialmente dal dilagare delle droghe pesanti, il commercio dei corpi si espande e la zona diventa teatro di questa tratta che non coinvolge solo i più disperati, ma anche donne comuni, che per ottenere quegli oggetti ormai simbolo di uno status sociale a cui tutti aspirano, si prostituiscono: “Viale Pilsudsky, sempre al Flaminio, anche lì c’erano le puttane, ma non quelle di professione, ci stavano le signore, quelle in tailleur di flanella a quadretti, che fino a poco prima stavano in ufficio e che poi andavano lì, per arrotondare un po’ e comprarsi magari la pelliccia.” racconta Alessandra. Ma le puttane non stavano solo su viale Pilsudsky, si erano stanziate anche sotto i pilotis, la soluzione proposta da Le Corbusier alla grave malattia delle città contemporanee . Ricorda sempre Alessandra: “Sotto i pilotis s’era organizzata l’ufficio. Era tutta laccata bionda con questo seno molto in evidenza, una bella ricca panza di due tre rotoli. Stava seduta su una sedia da ufficio di quelle anni sessanta, con vicino un tavolinetto che poteva essere un tavolinetto stile svedese ma povero.”
La riqualificazione della zona comincia con l’Auditorium costruito da Renzo Piano al posto di uno spazio un po’ in abbandono sede del così detto “puttantour”. Piano si impegna a costruire un luogo che nella sua dimensione innovativa si inserisce armonicamente nel territorio.
Utilizza materiali tipici della tradizione italiana come i mattoni rossi e le coperture in piombo dal colore verde, che si mimetizzano con la vegetazione circostante. Il piombo, inoltre, ricorda le cupole di molte chiese italiane. Queste strutture lasciano immaginare enormi insetti od animali dormienti e sono circondate da ulivi, in un parco sempre aperto al pubblico. La risposta della popolazione all’Auditorium è stata subito positiva: diventato uno spazio frequentato da tutta la città la gente partecipa numerosa alle diverse rassegne. I trans e le prostitute si spostano, il Villaggio comincia a non essere più percepito come quartiere povero, da evitare, ma inizia ad essere ambito. Racconta Francesca un architetto che si è proprio occupata di studiare le periferie ed i problemi annessi a questi grandi complessi edilizi: “Quando passavamo sul viadotto di corso Francia e vedevamo il complesso del villaggio Olimpico che avevamo studiato pensavamo: magari uno studio qui sarebbe bello.”
Il Villaggio si popola di nuove famiglie però, nonostante l’aumento dei prezzi dovuti alla presenza dell’Auditorium, “i problemi sono gli stessi di cinquant’anni fa, strutturali.” osserva Francesca: “Essendo complessi popolari sono luoghi che fino ad un certo punto si potevano dimenticare. Probabilmente spesso sono architetture pensate fino alla porta di casa che manifestano un problema irrisolto tra pubblico e privato”.
Il problema si riscontra per esempio nella mancanza di una serie di servizi. Già all’inizio degli anni Sessanta Vincenzo Colella si era battuto per ottenere delle migliorie: “In questi tre anni riuscii ad ottenere: il prolungamento del 3, da piazza Euclide all’attuale fermata, quindi finalmente collegati con la città, secondo, la concessione di una farmacia, ma quella che per me è stata la vittoria più grossa è stata la scuola elementare.Poi hanno fatto il primo centro anziani. Era un centro sociale che l’INCIS ci aveva dato a titolo gratuito. Arrivate le case popolari hanno detto: “No, voi dovete pagare.” E poi ce l’hanno tolto. Le casse annonarie hanno venduto tutto quello che potevano vendere. Hanno venduto tutti quanti i locali pubblici che poi ora son tutti chiusi.”
Il problema tra pubblico e privato diventa così un problema di speculazione che ha radici profonde.
Anche gli spazi verdi del Villaggio risentono delle stesse problematiche. L’immondizia che ricopre i prati non è solo un problema d’inciviltà degli abitanti, ma anche una carenza di servizi che si occupino di tenerli puliti. Racconta sempre Francesca: “Questi giardinetti non sono neppure del comune, e quindi il problema del verde è che concorrono un sacco di proprietà, un po’ il comune, un po’ il centro giardini, un po’ l’A.T.E.R. Non sai mai chi è responsabile veramente […] così gli abitanti devono sopperire alle mancanze creandosi quasi autonomamente un welfare”. Non a caso nella zona sono nate diverse associazioni, come il Villaggio dei Bambini, che oltre a promuovere attività per l’infanzia, cerca di ottenere i servizi mancanti come un centro civico, una ludoteca per i bambini, una sala di riunione per le associazioni e le persone di quartiere, una pista ciclabile che colleghi il Villagio a Piazzale Flaminio. La comunità si mobilita nel tentativo di colmare le lacune istituzionali, attiva la dimensione creativa per cercare di partecipare alla scrittura del suo presente.
Ed è su queste premesse che prende vita Cartografie latenti.
Il lavoro, orchestrato in una performance ripetuta dal 28 ottobre al 2 novembre 2014 nella Galleria 5 del MAXXI, era interpretato da due attori Amandio Pinheiro e Barbara Manzato, impegnati nella lettura di testi distinti. Un testo proponeva la voce degli architetti legati al Villaggio e di intellettuali coinvolti con la città di Roma, tra questi: Le Corbusier, Pier Luigi Nervi, Luigi Moretti, Pasolini e Goethe. Un secondo testo era composto da voci “meno illustri”, e cioè dalle testimonianze raccolte tra gli abitanti di diverse fasce di età, dagli anziani sino ai bambini.
I due testi, organizzati come un contrappunto di voci, a tratti si sovrapponevano ed a tratti si alternavano, sulla base del senso stesso delle parole. I dolori, i ricordi, i rancori degli abitanti legati insieme come un filo di perle, acquistavano un senso ancora altro nel momento in cui s’intrecciavano con il pensiero di chi ha dato vita agli spazi comuni.
Da questo incontro-collisione veniva evidenziandosi in particolare la mancanza di dialogo, di continuità tra l’esperienza vissuta e quella pensata, tra gli angoli retti dell’ideologia che ha gettato le basi per il modernismo e la carne sensibile dell’umanità, fatta anche di elementi intangibili, irrazionali, ma non per questo meno essenziali.
L’assenza di un dialogo che sarebbe necessario stimolare per poter risanare alcune delle fratture sociali che permeano il nostro vissuto, forse continua a generare quel vuoto apatico, quella miseria di spirito che, come diceva Vincenzo, contribuisce a renderci una popolazione “sparpagliata”. In psicoanalisi solo rivivendo il trauma riusciamo a superarlo. Nell’antica Grecia la tragedia fungeva anche come momento catartico in cui la collettività riviveva un evento particolarmente drammatico per prenderne coscienza, risolverlo, renderlo altro da sé.
L’arte diveniva così uno strumento collettivo, che attraverso la poesia, risanava fratture sociali irrisolte.
ELISA STRINNA Artista visiva lavora in Italia e all’estero. La sua ricerca si concentra in particolare sullo studio del rapporto tra uomo-natura, le relazioni che si stabiliscono tra arte e mercato, le dinamiche culturali generate attraverso i processi di globalizzazione. Recentemente ha partecipato a mostre quali Open Museum Open City al MAXXI di Roma, il premio 5×52013 al Espai d’art contemporani de Castelló (Spagna), alla Biennale di Taipei 2012, Taiwan. http://elisastrinna.tumblr.com/