di Bruno Giorgini
Dieci anni fa nell’hinterland parigino rullarono i tamburi, e migliaia di giovani insorti dettero nascita alla città delle banlieues, che ancor oggi fa tremare l’establishment, di destra e di sinistra. Per ora in molti casi una città parecchio machista, per dirla con un eufemismo.
Le vie e le piazze di quelli che qualcuno chiamava non luoghi, dove per definizione vivono dei non cittadini, si riempirono di ragazzi che praticavano la democrazia delle barricate e la solidarietà degli oppressi, esclusi, discriminati, con un soggetto portante, i beurs, i giovani immigrati di seconda generazione naturalizzati francesi a milioni, per volontà e legge di Mitterand.
Le rivolte iniziarono a Clichy – sous – Bois il 27 ottobre 2005, in seguito alla morte di due adolescenti Zyed Benna e Bouna Traoré, fulminati dentro una cabina elettrica dove si erano rifugiati per sfuggire alla caccia di un gruppo di poliziotti. Due adololescenti colpevoli solo di avere un aspetto e un colore della pelle che li identificava come maghrebini, in francese si dice: le delit de facies, vietato per legge ma comunemente praticato dai buoni cittadini franco francesi. In uno dei giorni seguenti arrivò il lancio di lacrimogeni, uno due cinque, una salva, le versioni discordano, dentro la moschea contro i fedeli intenti a pregare, il che fu preso come un’offesa a un intero popolo, ai suoi usi e costumi; e la lotta di strada si intensificò, allargandosi in tutta la cintura parigina e in molti altri posti di Francia e Navarra. L’8 novembre il governo decise di proclamare lo stato di emergenza, che rimase in vigore per oltre tre mesi. Stato di emergenza decretato sulla base di una legge promulgata durante la guerra di Algeria (3 aprile 1955), assimilando così la banlieue parigina alla casbah di Algeri, e i beurs, ribadisco: cittadini francesi a tutti gli effetti, ai partigiani del FLN algerino in guerra per l’indipendenza. Una legge dei colonialisti contro i colonizzati diventò lo strumento contro i giovani delle banlieues in lotta per il diritto di cittadinanza. Più chiaro di così.
Ma l’eruzione vulcanica che apparve improvvisa, in realtà veniva da lontano, nè nulla aveva a che fare, o molto poco, con le solite parole sulla disperazione dei poveri, soprattutto neri o marroni.
Anzi accadde piuttosto il contrario.La ribellione democratica vide in prima fila la nuova gioventù studiosa, la meglio gioventù, i beurs, molti disoccupati però con una propria cultura forte, articolata a livello di massa su musica, graffiti e persino una lingua inventarono: il verlan. Alcuni incontrando anche l’Islam. Altri la scienza, qualcuno la creazione artistica. Non intellettuali separati ma tutti insieme sulle barricate.
Lavoravo a l’ Universitè Paris Diderot – Paris VII a Jussieu, quando da un anno all’altro li vidi arrivare e il panorama sociale della classe cambiò. Con altri avevamo messo in piedi un laboratorio di fisica del caos, impostato sull’autogestione degli studenti, divisi in gruppi di tre/quattro individui, ogni gruppo dovendo attuare e sviluppare un progetto sperimentale, scelto da loro in una lista proposta a inizio anno. Il laboratorio restava aperto sei, a volte otto ore, lungo tre, quattro giorni settimanali, ogni gruppo aveva un suo piccolo fondo per gli acquisti di materiale, e veniva incentivato a cercare risorse scientifiche e tecniche nell’ambito dell’intera facoltà nonché della città. Per intenderci se nel tuo progetto avevi bisogno di un buon misuratore del suono, dovevi sbrogliartela andando al laboratorio di ricerche acustiche, e trovare sia lo strumento adatto che qualcuno abile a insegnartene il funzionamento. Oppure poteva capitare che alcune macchine sperimentali interessanti per il loro lavoro fossero esposte a la Citè des Sciences e de l’Industrie a La Villette o al Palais de la Découverte, col che gli apprendisti stregoni del caos uscivano dal campus per andare a capirci qualcosa, tentando poi di importare qualche idea o tecnica nel nostro ben più piccolo, però agguerrito, laboratorio.
Il Laboratorio era già bene avviato con 70 – 80 studenti iscritti, a volte fino a 100, un buon successo di pubblico e di critica, quando a metà degli anni ’90 irruppero una ventina di banlieusard, quasi tutti beurs. Erano facilmente identificabili dalla lingua, parlando verlan; dagli abiti, tutti con la casquette all’americana; dal modo in cui occupavano lo spazio muovendosi sempre per linee tangenziali come pronti alla fuga; dal senso del gruppo, stavano tra loro con poche interazioni verso gli altri; dalle musiche sparate nelle radio portatili; dall’aria disincantata con un filo d’arroganza; dallo stupore misto a ingenuo entusiasmo per le compagne di laboratorio, nei loro licei ragazze ne vedevano pochine o nessuna.
Inoltre si capisce che vengono da lontano, tra una e due ore all’andata, altrettante al ritorno, quindi senza il tempo di farsi una passeggiata nel quartiere e/o sul lungosenna: sbucano tutti insieme dal metrò al mattino, si infilano tutti insieme nel metrò alla sera.
All’inizio si erano aggregati in gruppi omogenei tra loro, adducendo anche i problemi logistici, e infatti mettere assieme uno che abita nel V arrondissement col Pantheon a un passo e uno che abita a Gennevilliers, vicino a una distesa di scheletri industriali, poteva sembrare una cosa da matti, ma noi insistemmo per mescolarli cogli altri e le altre – che ebbero un buon influsso – in parte riuscendoci. Non furono tutte rose e fiori, i ragazzi di banlieues erano a volte troppo intraprendenti, per esempio prendendo ciò che serviva loro negli altri laboratori, senza stare a chiedere. Capitarono anche casi più delicati; tra noi insegnanti c’era una giovane donna assai bella oltre che intelligente, un mattino mi ferma dicendo, sai quello, indicando col dito uno dei banlieusard, appena entrato è venuto da me dicendomi: signorina, tutta la notte ho sognato lei nuda sotto la doccia. E dovemmo mettere qualche fermo.
I risultati furono semplici da leggere. Una metà circa dei ragazzi di banlieue nel giro di un paio di mesi smise di frequentare il laboratorio, l’altra metà diventò bravissima.
Nulla di misterioso. Chi abbandonò aveva sia difficoltà linguistiche che di collocazione in un laboratorio. Per gli altri funzionarono una forte volontà di emancipazione – per Amin Mohamed diventare un fisico rappresentava un salto sociale mentre Pierre Dumas avrebbe forse preferito diventare un pubblicitario – una capacità di cavarsela in tutte le situazioni mentre Pierre si perde spesso in un bicchier d’acqua. Inoltre Amin la sera sta in casa a studiare, che fai in banlieue mica vai a un concerto salvo casi eccezionali e neppure passeggi sotto la Tour Eiffel, al massimo al centro commerciale; invece Dumas ogni sera va a una festa, una mostra d’arte, un bel cinema, a teatro, in una discoteca alla moda ecc.. insomma ha mille occasioni per chiudere i libri, infilare la porta muovendosi tra i divertimenti e le avventure della città fino a notte fonda.
Molti dopo ebbero dei buoni mestieri, nella ricerca, nello spettacolo, nell’insegnamento, nel volontariato sociale e con alcuni rimanemmo in contatto e amici, di tanto in tanto bevendo qualcosa insieme. Quasi tutti continuarono a vivere in banlieue, tutti quando a un posto di blocco vengono interpellati e richiesti di documenti hanno ancora oggi il cuore che gli salta in gola.
Così, qualche tempo dopo la strage della redazione di Charlie Hebdò, trovandomi a Parigi, mentre tutti descrivevano le banlieues pullulanti di jihadisti, ho telefonato a Amin – nome di fantasia – chiedendogli di farmi da guida per una esplorazione.“Immaginavo che avrebbe chiamato” risponde Amin, come ci fossimo sentiti ieri, e ostinandosi a darmi del “lei”, in francese in realtà sarebbe il “voi”, ma da noi suona un po’ fascista.
Alla svelta mi dà un appuntamento al giardino Rosa Luxemburg, ai margini del XVIII, più in là ecco la banlieue. Amin arriva su una bella Renault Clio seminuova, con un sorriso aperto scende, quasi m’aspetto che venga a aprirmi la portiera poi ci stringiamo calorosamente la mano, lo reinvito a darmi del tu, scuote il capo, entra in macchina, io m’accomodo a fianco e partiamo. Per dove non so, né lo chiedo. Chiacchieriamo del più e del meno. Mi perdo subito, la banlieue è riconoscibile perché, se non sei di lì, niente t’orienta. Tutto sembra affastellato più o meno a caso, viali, strade, case, immobili, piazze, persone. Non ti guidano i colori – è tutto uniformemente grigiastro con sfumature varie – non gli stili delle costruzioni, neppure i rumori, non ascolti la strada cicaleccia – camminando in banlieue non si conversa – o quella col rombo dei motori oppure il marciapiedi dove percepisci il ticchettio proprio ai tacchi delle signore; c’è un unico indistinto brusio che sembra salire dal ventre della terra. E non hai, come a Parigi, il riferimento della Senna, la rive gauche e la rive droite, o quello del Canal St. Martin, oppure le intelaiature della metropolitana di superficie, o i ponti sul fiume, per non dire della Tour Eiffel.
Allora butto un occhio ai nomi delle vie che percorriamo, Karl Marx, Lénine, Clara Zetkin, Maurice Thorez, Jean Moulin. Quando sbuchiamo in rue Karl Liebknecht – il dirigente spartachista ucciso a Berlino dal governo socialdemocratico tedesco assieme a Rosa Luxemburg, il giardino da cui siamo partiti, e lì di fianco c’è rue Frédéric Joliot Curie, fisico chimico Premio Nobel nel ’34, so dove siamo: a Sainte – Geneviève –des – Bois, una trentina di chilometri da Parigi. Inoltre Joliot, comunista dal 1942, fu presidente del Fronte Nazionale della Resistenza di Parigi, che preparò e condusse l’insurrezione urbana contro i nazisti – le micidiali molotov chimiche utilizzate contro i tank uncinati furono inventate proprio da Joliot, così capisco anche cosa Amin vuole dirmi con questa visita guidata attraverso i comunisti rivoluzionari d’antan – per concluderla con un grande fisico e grande resistente. Perché il lettore si renda conto dell’intensità e spessore del segnale che Amin mi invia, bisogna aggiungere che io ho lavorato all’ESPCI (Ecole Supérieure de Physique et Chmie Industrielles de la Ville de Paris), dove Joliot e sua moglie Iréne Curie fecero ricerca per una intera vita, e nelle cui cantine Joliot preparava gli esplosivi che i Francs Tireurs Partisans utilizzavano contro i tedeschi occupanti.
La mia ricerca verteva sulla teoria delle fratture e agli studenti del laboratorio non erano ignoti i miei stravizi rivoluzionari. Infatti Amin dice: è stata una bella frattura quando ci siamo ribellati. Quindi sei diventato comunista. Sì, mi sono iscritto al Partito (il PCF). Incalzo: Joliot è stato insignito ai tempi suoi del Premio Stalin per la pace… Ribatte: almeno Stalin non era un colonialista. Non è proprio così ma preferisco tacere.
Ormai s’è fatta notte e Amin guida attraverso il labirinto: adesso andiamo in un posto che spero le piacerà. Dai, tra compagni possiamo darci del tu, ancora lo invito ma il rapporto studente professore fa premio sulla empatia politica, e il tu proprio non gli viene.
Arriviamo a un edificio chiaramente dismesso, dai tubi potrebbe essere una vecchia fabbrica del gas, dentro c’è un bancone che distribuisce cibo elementare, birra e vino alla spina, mentre la musica spara i decibel come raffiche. S’aggirano un centinaio di giovani che mi guardano storto, si vede a colpo che non appartengo alla loro tribù, però la presenza di Amin garantisce. Molti stanno preparandosi per andare in missione, a graffitare, taggare, scrivere slogan, ma non portano solo bombolette. Sono chiaramente organizzati per difendersi, non faccio troppe domande, non mi sembra il caso. Hanno l’aria molto determinata, un po’ incosciente come quando si è giovani ma anche guardinga e attenta. Amin dice calmo calmo: la prossima volta non saremo così pacifici, è ora di finirla, con le buone o le cattive. Non c’è tanto da discutere, violenza sì, violenza no o quant’altro, e me ne sto zitto. Capisco però, di fronte a quei ragazzi, la paura che serpeggia tra i borghesi parigini, e franco francesi, d’altra parte girando per ore nella banlieue profonda non abbiamo incrociato una macchina della polizia che sia una. Più lontano, in certi snodi delle strade principali tra Parigi e qua, so che stazionano le truppe dello stato, cellulari con trenta quaranta agenti, tutti corazzati.
Mi spiega il mio amico che domani sera saranno da un’altra parte, gli edifici abbandonati sono innumerevoli, avete inventato i centri sociali volanti dico, Amin ride, gli pare comico e mette in piedi una burla linguistica in verlan di cui non capisco una parola, però faccio finta.
Adesso hanno un problema i compagni beurs, taglia trasversale Amin: la tournée. Perché è diventata in uso la ragazza per tutti, o molti. Spiega: quando una giovanissima o giovane ragazza vuole entrare in una banda, lui la chiama compagnia ma è meglio banda, deve sottostare a un rito di iniziazione sessuale accettando di avere rapporti sessuali plurimi e, per così dire, en plein air.
E’ un modo per imporle l’obbedienza e la sottomissione, attraverso la vergogna, non diverso da quello dei soldati di daesh. Intuisco dalle reticenze che alcuni dei baldi giovanotti militanti non sono riottosi alla pratica, e molti non la osteggiano con la dovuta energia. S’arrabatta Amin: non possiamo renderlo pubblico, denunciare i fatti, le ragazze non vogliono – credo – è incerto. Amin è un uomo maturo abituato all’uso della ragione per sciogliere i nodi, risolvere i problemi, ma non sa dove sbattere la testa di fronte a una cosa che non riesce a concepire, eppure vede svolgersi sotto i suoi occhi. Anche qui nella banlieue profonda il problema della donna, della sua libertà e eguaglianza costituisce un nodo decisivo. D’altra parte scontrarsi con le bande è difficile e rischioso, forse si potrebbe dare un esempio, capisco a cosa allude, ma non mi pronuncio, salvo che si tratta di una violenza carnale, una delle peggio, insopportabile dico. La città delle banlieues non può essere, assolutamente non può, quella della violenza carnale e sessuale contro le donne, penso. Un problema ben più profondo che vedersela con l’oppressione poliziesca.
Ormai è notte fonda, e torniamo a Parigi, cambiando discorso.
Infine voglio raccontare in brevissimo quando sono andato al mercato domenicale di Saint-Denis. Comune della banlieue che conosco bene a guida comunista, uno dei pochi rimasti in mano al PCF, e nella cui università Paris VIII insegnava Gilles Deleuze. Sono l’unico bianco, e la fila scorre mentre io rimango sempre fermo, guardato in cagnesco da qualcuno. Non è una bella sensazione, quindi mi metto a dire qualche parola al mio vicino che ascolta… e mi sorride: ma tu non sei francese, no sono italiano, ah scusaci sai qui i francesi non sono ben visti, e posso arrivare al banco. Saint – Denis, la proche banlieue alle porte di Parigi pochi mesi fa.
credits: immagine di copertina tratta da Flickr di Jean-Paul P.G.