Testo di Bruno Giorgini, Foto di Ellis Boscarol – tratto da Radio Popolare – seconda parte
Questa “strana” società multiculturale e multietnica che prende forma a Marsiglia, si basa su una intelaiatura sociale e culturale assai diversa da quella di Parigi.
Tagliando con l’accetta: una sorta di capitalismo che vede protagonisti ancora gli esseri umani nel grande porto del Mediterraneo, e dove non ci si vergogna di essere poveri, anzi i poveri sono fieri, combattivi; a Parigi invece vige un dominio del capitale finanziario che vuole modellare l’intera città, espellendo il più possibile in modo spesso brutale tutti i corpi estranei e/o marginali. I miei giovani arabi manager dello scantinato, vestiti come vanno di solito, a Parigi sarebbero fermati dalla polizia ogni due per tre, e se provassero a dichiarare il loro status rischierebbero anche di venire fisicamente maltrattati.
Inoltre a Marsiglia c’è un rapporto uomo natura molto denso e variegato: la città è cosparsa di orti, ettari di orti a gestione associativa, oppure individuale, a proprietà privata oppure del Comune che li affitta; a Marsiglia sono state letteralmente costruite portandoci tonnellate di sabbia, e attrezzate, ventuno (21) spiagge libere pubbliche, vere e proprie agorà frequentate da l’intera moltitudine degli abitanti, sorta di mescolatori sociali, cultural, etnici; a Marsiglia infine esiste il più vasto parco naturale urbano del mondo (almeno così affermano i marsigliesi); e rientra in questo capitolo anche la sua creatività artistica, dai meravigliosi fuochi artificiali ai graffiti, dalla video art all’artscience, dalle performances di strada alla musica e canzoni.
Da ultimo la questione religiosa. Sulle culture religiose marsigliesi sono stati scritti molti dotti volumi e articoli scientifici a profusione. Comunque sia, l’intera Marsiglia legge se stessa come città ponte e crogiuolo delle culture e religioni mediterranee, città di transito in qualche modo eternamente nomade.
Nello specifico della cultura mussulmana, molti studiosi convergono a parlare di “Islam marsigliese” definendone le caratteristiche peculiari. Ancora una volta con l’accetta: l’Islam marsigliese non è binario, e/o dicotomico. Quel che altrove è generatore di guerra civile, per esempio la frattura tra sciti e sunniti, a Marsiglia sembra non avere corso. Inoltre capita anche che i mussulmani dimostrino anche una concreta solidarietà verso le altre fedi. Per esempio i mussulmani del XIV arrondissement hanno deciso di fare una colletta per restaurare la Chapelle de Sainte Marthe devastata da vandali nel dicembre del 2013, mentre i giovani “arabi” muniti di martelli, seghe e altri utensili si mettevano al servizio dei restauratori.
Più in generale a livello di base è nato il sito Nous Sommes Unis che racconta le azioni intraprese da un collettivo molto ampio e variegato di associazioni e singole personalità in seguito agli attentati del 13 novembre 2015, con il motto: C’est parce que nous assumons nos différences de convictions que notre action commune prend encore plus de sens. (E’ perché noi assumiamo le nostre differenze di convinzioni che la nostra azione comune prende ancora più senso).
Infine in questa assai sommaria rassegna, da un punto di vista istituzionale funziona Marseille espérance, un gruppo di lavoro sulla pace civile, che riunisce regolarmente intorno al tavolo del sindaco i principali capi spirituali della città.
Ora vorrei raccontare una storia che ho seguito dal 2012 fino a ieri. Una storia di donne.
Samira e Anelita sono due sorelle franco marocchine con ascendenze catalane che vivono a Aix – en – Provence, la dependance borghese e ”per bene” di Marsiglia, epperò anch’essa col suo quartiere “malfamato”, guarda caso popolato da immigrati in specie maghrebini e giovani beurs, che fiancheggia la zona a dominante ebraica. Non manca una piazza deputata allo spaccio, con molti giovani non proprio rassicuranti che girovagano molestando a destra e manca. Le due ragazze, senza velo pur praticando il Ramadan, dopo aver seguito con successo un corso di moda mettono in campo un progetto per un atelier di moda “nella crisi”, cioè utilizzando materiali brutti, di scarto e/o riciclati e a prezzo contenuto. Lo slogan è grosso modo: anche i poveri hanno diritto a vestirsi bene.
Insieme propongono anche una scuola di apprendistato per giovani di ambo i sessi che vogliano imparare il mestiere. Fondano un’associazione, trovano i finanziamenti e cominciano aprendo il laboratorio proprio nella piazza degli spacciatori.
Le cose vanno lisce per qualche mese, gli apprendisti sono oltre la decina e qualche signora, velata e no, comincia ad affacciarsi per dare un’occhiata, bere un thè alla menta, comperare alcuni capi. Finché un mattino Samira e Anelita trovano le porte scardinate e l’atelier devastato.
Le ragazze hanno una solida assicurazione che permette loro di riaprire in breve tempo e con serrature molto più solide. Però si moltiplicano le intimidazioni verbali a opera dei pusher, e s’affaccia anche qualche religioso non proprio tollerante verso la moda e le donne senza velo. Allora le sorelle costruiscono un cordone di solidarietà con molti cittadini, intellettuali, personalità politiche, associazioni che firmano una petizione, intervengono sui media, vanno e vengono dall’atelier, per evitare che le ragazze rimangano sole.
Ma lo stesso arriva la seconda incursione notturna contro cui le nuove serrature non possono nulla. Le sorelle previdenti sentendo il vento che tirava hanno però preso l’abitudine di portare a casa ogni sera i capi finiti e/o in fase terminale, e anche i materiali più delicati e difficili da trovare. Insomma lavorano per metà a casa, quindi il danno è più contenuto tanto che l’atelier riapre alla svelta, rimanendo soltanto le scritte oscene che imbrattano i muri.
E qui nasce l’idea madre, finora vincente, di tutte le battaglie: una sfilata per signore del quartiere che dopo un accurato lavoro di convinzione porta a porta vengono in molte, alcune entusiaste: giovani e mature, mogli e nubili, col velo e senza.
Non contente le sorelle aprono anche una fase di discussione tra le religioni in un ciclo di conferenze settimanali cui sono chiamati religiosi e teologi cristiani, mussulmani, ebrei, con un buon successo. Su quest’onda costruiscono un pranzo comune del quartiere proprio nella piazza dello spaccio, perché “attorno a una tavola imbandita si discute meglio”. Ciascuno/a cucina un piatto tipico, singoli/e e gruppi, se vuole lo illustra, quindi lo si gusta, e la festa si prolungò fino a cena, mettendo assieme il diavolo mussulmano e l’acqua santa cristiana (o viceversa), la kippah ebraica e la kefiah arabo – palestinese, la minigonna e il velo, con tutte le musiche possibili di ogni civiltà.
Una storia che continua a tutt’oggi, di donne garantite da altre donne, praticamente tutte quelle del quartiere, seppure “E’ sempre come camminare su un filo teso al di sopra delle cascate del Niagara, sai dondoli capita che perdi l’equilibrio per una folata di vento che magari arriva da lontano, però fin qua non siam mai cadute del tutto, e passo dopo passo…” dice Samira. “Perché le cascate del Niagara, e non del Nilo” chiedo. C’è come un attimo di sospensione, quasi una stupefazione di fronte a una domanda incongrua se non sciocca, la cui risposta è scontata…“Ma.. per Niagara, il film con Marilyn Monroe. Non mi dire che non l’hai visto?!”.
Non sono tutte rose e fiori. A proposito di copricapi e simboli religiosi, l’11 gennaio del 2016 un insegnante ebreo che portava la kippah è stato aggredito con un coltellaccio da un sedicenne, autoproclamatosi militante di Daesh, o califfato, o Isis che dir si voglia. Il ragazzo, di nazionalità turca, etnia kurda, a Marsiglia con la famiglia da cinque anni, studente diligente al liceo, uno mai visto alla moschea, secondo le dichiarazioni dell’aggredito, Benjamin Amsellem, voleva sul serio uccidere. Dopo il presidente del concistoro israelita di Marsiglia Zvi Ammar ha chiesto come misura di sicurezza che gli ebrei non indossassero la kippah in luoghi pubblici.
Sia l’aggressione che la dichiarazione di Zvi Ammar hanno provocato molte polemiche dove la paura legittima degli ebrei si mescola all’orgoglio della propria fede, e dei suoi simboli come la kippah, appunto. I
noltre non è chiaro come un ragazzo sedicenne, turco di etnia kurda apparentemente senza troppi problemi, diventi, apparentemente non reclutato da nessuno, nel giro di poco tempo un adepto di Daesh fino a impugnare un coltello, tentando di uccidere un ebreo. Un ragazzo che, stando a una dichiarazione degli inquirenti, “non presenta disturbi psichici”, insomma non è matto. Per valutare la situazione bisogna anche ricordare che in città è la terza aggressione avvenuta contro persone di fede ebraica in pochi mesi.
Tareq Oubrou, rettore della moschea di Bordeaux, ha scritto su Le Monde che le aggressioni antisemite sono “antinomiche con l’Islam….il Corano cita venticinque profeti di cui venti ebrei…..prendersela con un ebreo perché è ebreo rimanda a prendersela attraverso lui con Abramo, Mosè, Gesù, tutti profeti del Corano…se oggi l’organizzazione Stato Islamico recluta così facilmente in Francia è tra l’altro perché noi siamo passati surrettiziamente dall’antisionismo all’antisemitismo….alcuni non hanno ancora capito che la storia degli ebrei francesi non è paragonabile a quella dei mussulmani in Francia, non hanno capito che questo giustifica il fatto che gli ebrei debbano essere più difesi.” Dichiarazione che manco a dirlo ha innescato ulteriori accanite discussioni.
Un luogo per avere un’idea approssimativa della temperatura della società multiculturale e multietnica dopo l’aggressione dell’11 gennaio, è il Falafel, un bistrot kosher coi migliori panini della città a due passi da l’Opéra, frequentato un po’ da tutti alla maniera marsigliese: ebrei, arabi, bianchi neri eccetera. A colpo d’occhio non è cambiato granché mi dicono. C’è una comprensibile inquietudine, e molte domande ma per ora nessuno ha manifestato in modo pubblico l’intenzione di voler migrare in Israele. Va detto che se i fondamentalisti mussulmani sono pochi a Marsiglia, o almeno certamente poco visibili, lo stesso vale per gli ebrei ortodossi, anche loro rarissimi, io non ne ricordo uno.
Un’ultima riflessione attiene il fatto che in Francia gli atti antisemiti sono stati, secondo il Ministero degli Interni, 806 nell’ultimo anno ma circa il 43% degli ebrei denuncia di avere subito almeno un’aggressione verbale. Intanto crescono gli atti antislamici, circa 400 (nel 2014 furono 133), anche qui i membri della comunità denunciano numeri più alti. Non sfuggono gli atti contro i cristiani, cimiteri e chiese, oltre 800.
Non sono in corso guerre di religione, ma certamente alcuni tentano di innescarle, ben oltre l’area di influenza jihadista.
In conclusione non credo che Marsiglia sic et simpliciter possa assurgere a modello di una possibile società urbana multietnica e multiculturale, troppe le sue specificità, alcune frutto di una storia millenaria e di una natura del tutto singolare, non riproducibili e nemmeno esportabili in un altro contesto. Però almeno l’esperienza marsigliese può essere una traccia per un percorso. Se vogliamo in qualche modo prefigura una possibile città del futuro.
Con un’ultima avvertenza: in questo testo non ho toccato né le forme della politica né le forme della criminalità non perché siano trascurabili. Semplicemente mi interessava presentare la possibilità di una convivenza civile, per quanto conflittuale, se si vuole: sempre costituente e mai costituita, tra persone, diciamo: popoli, assai diverse.