Adolescenza e abusivismo ai margini del “Rinascimento milanese”
di Paolo Grassi
Tutti sognano un sipario
ma non sanno che per starci devi sbatterci la testa
fino a frantumarti il cranio
Si nasce più aggressivi se si è nati nel barrio
Ma quali pezzi e stile, ho la freddezza di un sicario.
Sono figlio di operaio, ho vissuto in un topaio
Lavorare per mangiare, si faceva il necessario
Mai avuto il piatto pronto, né un resoconto
Non sono un fortunato stronzo e metto tutto a repentaglio
Al dire il vero sono schietto, guardo il cielo e rifletto
Mi distinguo diverso neutro dallo pseudo uomo perfetto
Milano, 2017. Christian arriva al nostro appuntamento con quarantacinque minuti di ritardo. Beviamo un caffè in un bar di Piazza Monte Falterona, sul confine esterno del quartiere in cui ha trascorso la maggior parte della sua esistenza, quel quadrilatero di edilizia popolare nel cuore di San Siro che a lui piace chiamare semplicemente “zona”.
Christian a Milano è arrivato quando era bambino. Figlio di una coppia di stranieri, ha frequentato le scuole dell’obbligo, ottenuto la cittadinanza italiana e iniziato a sporcarsi le mani.
Un giorno, lo scorso marzo, mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere il suo curriculum. Addetto alle vendite, barista, cameriere, magazziniere: precarie esperienze lavorative ne punteggiano l’ancor breve traiettoria biografica. Le stesse esperienze che ritornano nelle rime che Christian appunta su quaderni scolastici spiegazzati: “Sono figlio di operaio, ho vissuto in un topaio / Lavorare per mangiare, si faceva il necessario”. L’estetica da cui attinge per costruire il proprio immaginario è transnazionale. Nelle sue canzoni San Siro è come un barrio latinoamericano, un ghetto statunitense, una banlieue parigina. È insieme la “periferia” da cui riscattarsi e il sostegno a cui appigliarsi. L’unisce ad adolescenti e giovani residenti in altri paesi.
Lo stigma gettatogli addosso si trasforma grazie alla musica, convertendosi in emblema:
“[San Siro] È un quartiere normale – mi spiega Christian passeggiando – una periferia, ha i suoi lati positivi e i suoi lati negativi. C’è chi nasce e cresce in quel quartiere e allora lo vede come casa sua. Magari uno dall’esterno può dire il contrario”.
Qualche mese fa Christian decide di occupare una casa. È giovane, ma ha le idee chiare. L’appartamento della madre è troppo piccolo e lui si sente troppo grande per continuare a farsi mantenere: “Alle cinque del mattino / due ore che ho dormito / mi sveglio rincoglionito / dodici ore in magazzino / tu che scrocchi ancora i soldi dal papino / per fumarlo. Tu giudichi me / mentre tu non fai un emerito cazzo con il tuo amico”.
La storia di Christian mi sbatte in faccia una semplice costatazione, ossia l’articolazione del fenomeno dell’abusivismo, categoria stigmatizzante sotto la quale si nasconde una varietà di traiettorie individuali: stranieri “sottoproletari” vittime della grande recessione, anziani che rifiutano non pagando il degrado in cui sono costretti a vivere, subaffittuari senza titolo e così via. Al di là quindi all’immagine dicotomica costruita dalle narrazioni mediatiche e politiche: il racket da una parte e i centri sociali dall’altra, a spartirsi uno dei più grandi quartieri di edilizia popolare milanese.
I numeri sono in realtà nebulosi, spesso sovrastimati strategicamente da questo o quel portatore d’interesse. In generale si registra un aumento negli ultimi quattro anni: 350 alloggi occupati abusivamente secondo dati Aler del 2013, saliti a 700 in un articolo del Corriere della Sera del 2016, arrivati a 800 secondo una dichiarazione di un dirigente Aler a giugno 2017. Il presidente del Municipio 7 – una delle nove circoscrizioni in cui è diviso il territorio comunale di Milano – rilancia a 900 in un post sulla sua pagina Facebook dello stesso mese. Ad ogni modo, i numeri congelano il dinamismo del quartiere in immagini ingannevoli e irreali. Non tengono conto del ricambio e delle alternanze dei residenti, della molteplicità degli scenari.
Christian ed io camminiamo uno a fianco dell’altro verso una zona più centrale. L’architettura razionalista lascia spazio a palazzi dei primi del Novecento e aree residenziali. La città intorno pare distendersi e Christian parla a ruota libera. Corrispondo alle aspettative del ruolo temporaneamente affibbiatomi. In questo momento sono per lui solamente una figura adulta con cui potersi confrontare. L’ascolto a volte è il miglior riconoscimento:
“Ma noi, io e i miei amici, quando abbiamo occupato la casa eravamo fuori da tutto. Fuori dai comunisti, fuori dal racket. Abbiamo fatto tutto una cosa individuale… Abbiamo fatto tutto da soli”.
Christian reclama la sua indipendenza, la sua libertà di scelta, proprio come nella musica:
“Ti piace la Trap?
Sì, mi piace, però il fatto è che tutti parlano di quartieri dove loro non sono mai venuti”.
L’occupazione per Christian è un gesto di rifiuto, non di rivendicazione cosciente. La sua azione non è istanza sociale, lotta per il diritto alla città, o una rivoluzione. Christian nega la violenza strutturale in cui è stato costretto. Ri-abita la città che ne riconosce la presenza attraverso la sua esclusione, o che la include marginalizzandola. Come quando, fino a qualche anno fa, correva con gli amici nei parchi, si arrampicava sui tetti dei palazzi, volteggiava in cima ai muri. Il parkour come strumento per sovvertire le regole spaziali, l’abusivismo per scriverne di nuove?
Da qualche settimana Christian non sa dove stare. Ha discusso con il coinquilino e scelto di farsi ospitare da un amico. Christian dice di aver trovato un altro appartamento in cui entrare, uno dei centinaia lasciati sconsideratamente vuoti dall’ente gestore.
Christian continua a cercare lavoro. Si muove sfruttando il proprio moderato capitale sociale, le reti di relazioni personali. Lavori saltuari, sottopagati, stagionali. Prestazioni occasionali, in nero, o non retribuite. Spesso a servizio di quella porzione di città che non lo vuole considerare.
Camminando raggiungiamo un sottopassaggio recentemente rivalorizzato da un progetto di educativa di strada della zona. Le scale di solito gremite di adolescenti oggi sono vuote. Pare che guardie private stiano cacciando sistematicamente i ragazzini. La risposta securitaria consola i residenti dei palazzi di classe media, dando un nome alle loro paure.
Torniamo indietro con il tram numero 16. Al di là del finestrino, vedo apparire davanti ai miei occhi boutique di marchi prestigiosi, ragazzi uscire da collegi privati. Il centro città marca disconnessioni. Più che ostentazione, riconosco nei passanti modi di vita alternativi, pratiche quotidiane precipue: la moda del “food” mette in fila un gruppo di persone davanti a un negozio che vende esclusivamente cannoli, turisti scattano fotografie. La città musealizzata prende le distanze dalle zone di espansione. Come un negativo di una città brasiliana, là il morro lascia spazio all’asfalto, qui l’asfalto lascia spazio ai sanpietrini.
A San Siro, nell’ufficio del Politecnico di cui posso usufruire, Christian osserva con attenzione un plastico appeso a una parete. È la pianta del quartiere. Christian ne è rapito. Elenca soprannomi dati a porzioni di territorio urbano, etichette che delineano la sua presa su San Siro: qui il palazzo di Piazzale Segesta ha la forma di un gigantesco kebab, là l’intersezione di tre vie crea una grande H, su quei palazzi invece i pezzi di street art preferiti. Christian me ne mostra uno, oggi cancellato a causa di un programma di rigenerazione urbana che ha ristrutturato le facciate di alcuni edifici: un grosso uccello che dispiega le ali.
La storia di Christian è la storia della sua città adottiva, dove si intersecano vissuti e luoghi colmi di significati. Una storia di strada opposta alla retorica del “rinascimento milanese” post Expo 2015. Una storia tutt’altro che trascurabile, o accessoria. Christian non è un’eccezione. È un pezzo di Milano, ostinato e tenace. È un ragazzo le cui costrizioni lo hanno portato a compiere determinate scelte, coincise in parte con pratiche illegali comprensibili solo se riferite in primis ai rapporti politico-economici e sociali costitutivi dello spazio urbano in cui si sono dispiegate.
In fondo le sue rime dicono lo stesso, utilizzando altre parole: “Dare un proprio al rumore mentre sfaso / dove l’emozione sono parole dette a caso / dove il problema degli altri diventa il tuo / dove la goccia del tuo sangue farà traboccare il vaso / ma se chiedi se va tutto bene mento / credo che sia meglio di tutte le stronzate che sento / quali ragnatele nelle [case] popolari / tramutate in catene mentali / magari sono sindromi del tempo”.
Nota: Christian è un nome fittizio. Il ragazzo che qui chiamo Christian ha riletto e discusso con me la prima stesura dell’articolo.
foto: Mapping San Siro