Falconara. Voci nella città

di Massimo Carlotto, foto di Paolo Mazzo

 


 

Questo articolo rappresenta un estratto del progetto editoriale “Voci nella città” della casa editrice “Editoria & Spettacolo”, edito nel 2005. Qui di seguito la presentazione di Massimo Raffaeli

« Esistono molti modi per raccontare un luogo, così come esistono altrettanti modi di selezionarne tempi e spazi, di liberarne il potenziale e catturarne il senso nascosto, o magari rimosso. Il progetto Voci nella città, nasce proprio dalla necessità di raccontare Falconara Marittima per farla scoprire, o riscoprire, innanzitutto ai suoi stessi abitanti. Perché talvolta solo uno sguardo esterno, o ‘altro’, può indurre un’utile verità e segnare una differenza, correggendo ovvero spiazzando gli automatismi percettivi di chi invece è a tutti gli effetti un residente, vale a dire un cittadino preso nei ritmi della normale vita quotidiana. In questo modo, alcuni scrittori e fotografi sono convenuti a Falconara,  provando a descriverla/immaginarla/reinventarla ciascuno alla propria maniera, mantenendosi libero nel vagabondare e dunque nel rinvenire una sua specifica visuale, un motivo di riflessione, un angolo nascosto e tuttavia stimolante e suggestivo.”

 


 

SALOTTO CON VISTA API

Voi siete matti. Comprare la casa? Ma avete visto cosa c’è fuori dalla finestra?

Ah, non vedete nulla di speciale? Quella, cazzo, la raffineria. Già, L’Api. Tanti anni che la vedete che vi siete abituati, ormai fa parte del paesaggio. Ma non avete voglia di affacciarvi alla finestra e vedere qualcosa di diverso? Magari delle altre case, panni stesi, una signora che prende il sole su una sedia di plastica. Così potete parlare di qualcuno, ammirare, criticare. Anche stupirvi, meravigliarvi. Insomma, osservare una realtà che si modifica. Qui guardate fuori e tutto è sempre uguale. Di giorno e di notte. Per vedere un po’ di colore dovete guardare la televisione. Che vuol dire che l’Api si vede da ogni parte di Falconara? Qui ce l’abbiamo proprio di fronte. Dall’alto, da sopra la chiesa, almeno sembra ferraglia innocua, vecchia, grigia. Ma qui, da questo salotto con le tendine di pizzo, si vede che è vero, vivo e pericoloso. Tu non alzare le spalle. Ti ricordi quella volta che eri in autobus e hai sentito il botto e poi mi hai telefonato: deve essere saltata l’Api, hai detto, vai a vedere come sta la gatta. Cosa significa che qui avete sempre vissuto e che è la vostra casa? Come potete pensare di sedervi in poltrona e guardare la raffineria fino alla fine dei vostri giorni? Che senso ha pagare questo panorama con i risparmi di una vita? Dovrebbero regalarvela questa casa come premio fedeltà: vent’anni di salotto con vista Api. Complimenti!

No, avete ragione, non capisco e non capirò mai. Non capisco più nemmeno questo posto. Si era detto che il tempo del petrolio era finito. Invece l’Api è sempre lì. E Falconara muore. Muore dentro. Dei nostri non ci lavora quasi più nessuno, vengono da fuori. Da posti dove l’Api non c’è. Goccia dopo goccia la terra si intride di chimica che poi si riversa a mare. Chimica e tempo non vanno d’accordo. La chimica ha dita, scava nel profondo per non andarsene più. O il più tardi possibile. Tempo della chimica e tempo delle parole. Sono stanco di sentire parlare dell’Api. E della raffineria si parla sempre. Non c’è rifugio. Anche quando la musica o il buon cibo dovrebbero lasciarla fuori della porta, c’è sempre qualcuno che riprende il discorso. Forse avete ragione, è meglio averla appena fuori della finestra del salotto. Così il discorso è chiuso.

Eppure non posso smettere di sognare di svegliarmi la mattina e non vedere più acciaio e tubi arrugginiti. Saremmo costretti a tutti a riprogettare il futuro di Falconara. Pensate che cosa straordinaria. Magari vi verrebbe voglia di cambiare il divano e la credenza e di rimanere ora alla finestra a guardare il mare.

 

 

ISOLA CON VISTA FALCONARA

Tesserino e controlli. Obiettivo sensibile del terrorismo. Soldati armati all’esterno del perimetro. Un’occhiata alla bacheca dei comunicati sindacali e poi dritto nello spogliatoio, scarponcini, casco, occhiali, cellulare con dispositivo antidetonante. Basta poco e qui diventa l’inferno. Appena fuori del piazzale un cartellone digitale: 69 giorni senza incidenti. Vediamo di battere il record. Il furgone passa a fianco all’area sigillata dalla magistratura. Sembra di essere in Iraq. Cisterne sventrate, autocisterne contorte. Guardiamo tutti senza commentare. Due minuti e arriviamo al cancello fiscale numero 8. E qui inizia la giornata. Una sessantina di passi al pontile e poi con la pilotina fino all’isola. Oggi il mare è tranquillo. Fa un freddo boia ma il cielo è limpido. Verifica delle attrezzature. Tutto a posto. Verifica dei sistemi di pompaggio. Tutto a posto. L. chiama al cellulare. È in pensione da due mesi ma la squadra era la sua famiglia. Ci ha visto arrivare dalla finestra della camera da letto.

Allora ragazzi come va? Tutto a posto. Poi chiede dell’isola. Non gli sembra vero di non poterci più andare. Tutto a posto. Chiede cosa mangeremo stasera. Allora gli rifilo una balla. Scatolette, rispondo. Ma lui sa che non è vero. Terminato il lavoro ci chiuderemo in cucina e via con le tagliatelle. Le tiro io che sono un artista. Prima di chiudere mi chiede come sta la bionda. L’aveva attaccata lui in cucina. Una con certe tette. Tutto a posto, rispondo. Lavoriamo bene, capita sempre qualche problema e noi ci dobbiamo inventare la soluzione. Qui si lavora così. Bisogna arrangiarsi. Non lascerei mai la squadra. Mi piace. Abbiamo responsabilità ma siamo tutti dei veri professionisti. Qui non succederà mai nulla. Né botti, né inquinamenti. Mi piace incontrare gli equipaggi delle navi. Trovi gente di tutti i tipi. A volte simpatici, altre rompicoglioni. Ma alla fine diciamo noi come si fanno le cose. Questa è la nostra isola.

Di notte, prima di andare a letto, guardo sempre Falconara. Prima l’Api e poi le case. Dall’altra parte, verso sud c’è il mio paese. Dalla mia finestra non si vede l’isola. Quando sarò in pensione non vedrò la pilotina che parte dal pontile. Ma io, tanto, non chiamerò mai. Certo mi mancherà la squadra ma quando uno smette di lavorare ci deve mettere una pietra sopra. Anche F. e G. hanno smesso di chiamare. L. è in pensione da poco. Ancora non si è abituato. Fuori dall’Api ognuno fa la sua vita, non ci si vede mai, ma quando sei di turno esiste solo la squadra. La sera si parla di tante cose e la notte hai tempo di pensare. E l’indomani, se il mare lo permette, rimonti sulla pilotina e riattraversi il cancello fiscale numero 8. Tesserino e controlli anche all’uscita. Poi il piazzale, l’auto e la provinciale. Poi un’ultima occhiata all’isola prima di andare a sud. A casa.

 

 

CASOTTO CON VISTA API

Non tornavo qui da un sacco di tempo. Dovevo avere 12 o tredici anni quando sono venuto qui per l’ultima estate. C’erano meno casotti, l’albergo era nuovo e le villette da quel lato erano poche e sparse. Il nostro casotto era uno dei primi dal lato del fiume. Sei piloni di cemento, pareti di lamiera e tetto in eternit. Mio padre negli anni l’ha sistemato. Ogni estate qualche lavoretto in più. Mia madre si occupava dei fiori sul balconcino, ci teneva che fossero perfetti. Ora non so cosa farne. Loro non ci sono più e le mie sorelle, al mare qui, non ci vogliono venire. Ho la chiave che mi balla in tasca ma non ho voglia di tirarla fuori. È la prima volta che vengo qui d’inverno. Non c’è nessuno e tutto sembra provvisorio. La spiaggia è sporca. Plastica perlopiù. C’è anche un binocolo senza lenti. Qui e là docce e rubinetti che spuntano dalla sabbia, griglie arrugginite e barche rovesciate. Sembra tutto abbandonato ma ai primi caldi la gente tornerà, metterà a posto quello che l’inverno ha danneggiato, pronta a trascorrere un’altra estate.

Mi giro e guardo oltre il fiume. Non ricordavo l’Api così grande e imponente. In realtà non la degnavo mai di uno sguardo. Era dall’altra parte del nostro mondo. Da una parte il fiume, dall’altra le villette e davanti il mare. Forse perché è inverno, forse perché non c’è nessuno, ma non riesco a smettere di guardare in quella direzione. Il pontile della raffineria sembra un artiglio piantato nel mare. Cammino tra i casotti, cerco di ricordarli abitati. Tornano a galla volti e storie di ragazzi. E ragazze. Si chiamava Tosca. Io ero imbranato e lei tagliò corto ficcandomi la lingua in bocca. Accadde un fine agosto proprio sulla riva del fiume. Mi dirigo verso l’argine per ritrovare il punto esatto.

Attraverso un canale d’acqua ferma, puzzolente. Il posto lo riconosco. Alzo lo sguardo e mi ritrovo a fissare enormi depositi, forse si chiamano cisterne, non so. Alla fine trovo il coraggio di aprire il lucchetto. Il casotto sa di muffa. Apro cassetti, ante di armadi, osservo oggetti senza curiosità. Mi distendo sul letto, cercando di immaginare l’estate, la vacanza. Non ci riesco. Mi sento un estraneo. E poi  tutto mi ricorda mio padre e mia madre. Loro qui erano felici. Io non riuscirei nemmeno a divertirmi un po’. E poi dovrei venirci da solo. Anna si rifiuterebbe. Mi chiederebbe come è possibile trascorrere le vacanze in una baracca a due passi da una raffineria. E non riuscirei a spiegarlo. È impossibile raccontare la storia di certi luoghi. Mi rialzo ed esco senza chiudere la porta. Questo casotto non mi appartiene più.

 

 

 

 

Massimo Carlotto è nato a Padova nel 1956. Scoperto dalla scrittrice e critica Grazia Cherchi, ha esordito nel 1995 con il romanzo Il fuggiasco, pubblicato dalle Edizioni E/O e vincitore del Premio del Giovedì 1996. Per la stessa casa editrice ha scritto: Arrivederci amore, ciao (secondo posto al Gran Premio della Letteratura Poliziesca in Francia 2003, finalista all’Edgar Allan Poe Award nella versione inglese pubblicata da Europa Editions nel 2006), La verità dell’Alligatore, Il mistero di Mangiabarche, Le irregolari, Nessuna cortesia all’uscita (Premio Dessì 1999 e menzione speciale della giuria Premio Scerbanenco 1999), Il corriere colombiano, Il maestro di nodi (Premio Scerbanenco 2003), Niente, più niente al mondo (Premio Girulà 2008), L’oscura immensità della morte, Nordest con Marco Videtta (Premio Selezione Bancarella 2006), La terra della mia anima (Premio Grinzane Noir 2007), Cristiani di Allah (2008), Perdas de Fogu con i Mama Sabot (Premio Noir Ecologista Jean-Claude Izzo 2009), L’amore del bandito (2010), Alla fine di un giorno noioso (2011), Il mondo non mi deve nulla (2014) e la fiaba La via del pepe (2014). Sempre per le Edizioni E/O cura la collezione Sabot/age. Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato Mi fido di te, scritto assieme a Francesco Abate, Respiro corto, Cocaina (con Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo) e, con Marco Videtta, i quattro romanzi del ciclo Le Vendicatrici (Ksenia, Eva, Sara e Luz). I suoi libri sono tradotti in molte lingue e ha vinto numerosi premi sia in Italia che all’estero. Massimo Carlotto è anche autore teatrale, sceneggiatore e collabora con quotidiani, riviste e musicisti.

Paolo Mazzo è nato a Padova, vive e lavora a Milano. Fotografo professionista dal 1993, è socio di F38F – Famiglia Trentotto Fotografi (con Francesco Di Loreto e Mimo Visconti), che produce fotografie pubblicitarie, editoriali e di architettura. Autore di progetti fotografici a sfondo sociale o urbano, ha prodotto lavori sulla rigenerazione culturale di una dimenticata città mineraria  (Arsia, Croatia, work in progress); sul popolo profugo Sahrawi  in Algeria (“Voci distanti dal Mare”, Napoli 1998; “Il Coraggio di essere un popolo”, Reggio Emilia 2002); oltre all’analisi urbanistica della città in cui vive (in F. Oliva, L’urbanistica di Milano, Hoepli editore, Milano 2002; e  A. Arcidiacono, L. Pogliani (a cura di), Milano al futuro, et al./edizioni, Milano 2011); fino al progetto Company Town, di recente esposto a Londra, dove analizza lo sviluppo e la genesi di città cresciute attorno a importanti insediamenti produttivi (p.e. Zlin in Repubblica Ceca, Batovany in Slovaccchia o Nowa Huta in Polonia). Dal 2002 collabora con gli atelier del primo e del sesto anno all’Accademia di Architettura di Mendrisio ed è dal 2007 coordinatore della ISSI, l’international summer school di Ivrea, che si occupa dei temi della città di Olivetti in trasformazione. Ha tenuto lezioni e workshop allo IUAV, al politecnico di Milano e di Torino e alla scuola umanitaria di fotografia di Milano C.F.P. Bauer. Ha vinto il  “Marco Bastianelli- Opera Prima“ premio nel 2010 con il lavoro “Radici di ferro”, un progetto sul primo insediamento delle acciaierie Falck a Dongo (Como)

 

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