La guerra di pietra e cemento
di Francesco Chiodelli
Il fatto di cronaca è noto a tutti: Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele. I giornali ci hanno raccontato (più o meno) bene come ciò rappresenti un evento politicamente dirompente. Gerusalemme Est (e con essa la Città Vecchia, sede del Muro del Pianto, della Spianata delle Moschee e della Basilica del Santo Sepolcro) è stata occupata militarmente da Israele nel 1967 e successivamente dichiarata unilateralmente, insieme a Gerusalemme Ovest, capitale indivisibile dello Stato ebraico. Le Nazioni Unite, attraverso numerose risoluzioni, hanno condannato ripetutamente l’occupazione di Gerusalemme Est (e del resto dei territori palestinesi) e non hanno mai riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. E’ proprio per questo che tutte le ambasciate dei paesi stranieri in Israele hanno sede a Tel Aviv e non a Gerusalemme.
Gli Stati Uniti sono sempre stati fedeli alleati e sostenitori di Israele e delle sue politiche, anche di quelle più controverse (per esempio, la costruzione del famigerato Muro di separazione), ma nemmeno durante le presidenze più radicali hanno osato fare il passo di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Perché ciò significa, di fatto, legittimare l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e porre una pietra tombale sopra ogni possibile speranza di pace nella regione. Infatti, come noto, la sovranità palestinese su Gerusalemme Est è uno dei punti irrinunciabili per i Palestinesi affinché si possa giungere a un accordo di pace con Israele.
La decisione di Trump segna una frattura radicale con il resto della comunità internazionale e, fatto ben più grave, rischia irresponsabilmente di ravvivare il fuoco della violenza nell’area, con esiti imprevedibili. Ciò detto, è però necessario chiedersi quale sia il quadro sullo sfondo del quale tale decisione avviene, perché altrimenti si rischia di non fare i conti con la (dura) realtà. Cosa è successo dal 1967 in avanti a Gerusalemme Est?
Nel corso degli ultimi 50 anni, nel silenzio quasi completo della comunità internazionale, Israele ha messo in campo un formidabile processo in grado di trasformate un’aspirazione politica, quella dell’indivisibilità e dell’ebraicità di tutta la città, in un dato di fatto. Un geografo israeliano, Oren Yiftachel, ha definito questo come un duplice processo di “ebraizzazione” e “de-arabizzazione” della città, ossia un processo finalizzato contemporaneamente a favorire l’espansione spaziale e demografia della popolazione ebraica a spese della popolazione araba.
Tutto ciò si è fondato su una miriade di azioni minute: la demolizione di una casa palestinese, la costruzione di un condominio per famiglie ebraiche, l’esproprio di un terreno arabo, la realizzazione di una tramvia che collega est e ovest della città, la negazione di un permesso di edificazione a una famiglia palestinese.
Queste azioni minute, prese singolarmente, possono sembrare insignificanti e prive di qualsiasi effetto politico. Tuttavia, cumulate nel tempo e nello spazio, hanno cambiato in profondità la materialità della città. Hanno cancellato la divisione fisica tra Gerusalemme Ovest, la città ebraica, e Gerusalemme Est, la città araba. La famosa “linea verde” che sulla carta dovrebbe dividere le due città (e che è il confine ufficialmente riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale) semplicemente non esiste più.
Oggi non vi è soluzione di continuità tra la città ebraica a ovest e la città ebraica a est. In cinque decenni, infatti, autorità israeliane hanno costruito a Gerusalemme Est una serie di quartieri destinati esclusivamente alla popolazione ebraica, che oggi ospitano circa 200.000 persone (ossia il 40% della popolazione ebraica della città). Si noti, tra l’altro, che si tratta in quasi tutti i casi di quartieri di “edilizia pubblica”, ossia costruiti direttamente dalle autorità israeliane o fortemente supportati da esse (per esempio tramite finanziamenti pubblici), che sono stati realizzati quasi sempre su terre espropriate a proprietari palestinesi.
Come sottolinea Eyal Weizman, un noto architetto israeliano: “L’uso del termine ‘pubblico’ rivela più di qualsiasi altra cosa il pregiudizio politico del governo: il ‘pubblico’ a cui venivano imposti gli espropri ha sempre compreso anche i palestinesi; il ‘pubblico’ che ha goduto dei frutti degli espropri [ossia la costruzione di edilizia pubblica] è stato composto solo ed esclusivamente da ebrei”.
Allo stesso tempo le autorità israeliane hanno messo in atto una serie di misure finalizzare a contenere l’espansione urbana araba, con il risultato di trasformare i quartieri palestinesi in veri e propri ghetti, poveri, sovraffollati e privi dei servizi pubblici necessari. Oggi questi quartieri si configurano così come isole aliene, povere e degradate, all’interno del mare della città israeliana.
Il risultato di questa vera e propria guerra di pietra e cemento è politicamente dirompente: cambiando la struttura fisica della città le autorità israeliane hanno creato un nuovo vincolo materiale, materiale, alle opzioni concretamente a disposizione alla politica.
Paradigmatiche sono in proposito le parole di Ehud Olmert quanto era sindaco di Gerusalemme (prima di diventare poi, nel 2006, Primo Ministro di Israele): “Espanderò Gerusalemme a est, e non a ovest. […] Nonostante io non possa prendere decisioni politiche su Gerusalemme – che sono di competenza del governo nazionale – posso far sì che alcune cose accadano sul campo, come per esempio costruire lungo i vecchi confini e creare una continuità tra i quartieri ebraici a Gerusalemme Est. Le mie decisioni in proposito influenzeranno le opzioni a disposizione del governo rispetto a una soluzione politica per Gerusalemme”. Oggi, infatti, ridividere la città lungo i confini precedenti all’occupazione israeliane dal 1967 è praticamente impossibile.
Volenti o nolenti, Gerusalemme è già oggi unita e indivisibile. Naturalmente, continuare a parlare di ridivisione della città ha un comprensibile e condivisibile significato politico e simbolico. Ma non ha più alcun significato concreto. E’ una semplice utopia. Ciò, ovviamente, non giustifica la decisione di Trump (e non legittima l’occupazione israeliana). Ma è lo sfondo su cui ciò è potuto avvenire.
Ed è un vincolo che bisogna tener presente se si vuole progredire nel dibattito pubblico sul futuro della città, nella direzione di una soluzione praticabile (con la conseguenza, per esempio, di cominciare a dare maggiore voce a ipotesi quali la gestione condivisa o internazionale della Città Santa).
Foto di copertina: Costanza Pasquali Lasagni