Perdersi e ritrovarsi a Porta Venezia
di Nazaré de Sousa Xavier
Siamo arrivati in autunno. Il caldo dell’estate ormai si è trasformato in una grande centrifuga di elaborazione e aspettative sulla continuazione del progetto del film documentario: Potlach.
Questa volta le esplorazioni sono rivolte ad esperienze di altre persone che sono riuscite, nel complesso mondo del cinema documentaristico, a portare a termine delle esperienze simili alla nostra.
Il nostro primo incontro in tal senso si è svolto venerdì 8 ottobre 2016 dentro al mercato comunale di Lorenteggio, in un piccolo angolo dedicato agli incontri e anche alle proiezioni di filmati.
Eravamo tutti curiosi di vedere il docufilm Asmarina dei registi Alan Maglio e Mehdin Paolos. Alan era presente alla proiezione e si è messo a nostra disposizione per rispondere alle nostre domande.
Le domande sono partite timidamente, le prime riguardavano come fosse nato il progetto del film documentario. Alan ci ha spiegato che tutto è nato tramite la sua passione per la fotografia (una delle sue professioni) e grazie alla sua amicizia con Mehdin e alla frequentazione del quartiere di Porta Venezia, dove da tempo è insediata una piccola comunità eritrea.
Pian piano sono arrivate altre domande, tecniche e non: quali attrezzature usate, quali tecniche di riprese, quali scelte prese durante il montaggio; e poi ancora, quali luoghi fossero stati importanti per determinare la sceneggiatura, quale rapporto fosse nato persone coinvolte, quali fossero le loro aspettative prima e dopo il progetto e le difficoltà trovate…
Alan ascoltava con molta pazienza e ci raccontavo con molta passione la sua esperienza.
Per permetterci di avere una visione più completa, Alan ha accettato di metterci a disposizione i contatti di alcune delle persone che hanno partecipato al documentario. Così avremmo avuto la possibilità di sentire da loro come fosse stato vivere quell’esperienza: raccontare le loro storie, seguiti da una telecamera.
L’appuntamento per incontrare queste persone è stato fissato per un sabato, il 12 novembre 2016, in Porta Venezia, uno dei luoghi più importanti della sceneggiatura del film Asmarina e anche luogo storico per il ritrovo della comunità eritrea a Milano.
Prima di incontrare i nostri interlocutori, ci siamo riuniti tra noi per fare un piccolo resoconto del nostro ultimo incontro e rinfrescare gli argomenti affrontati nel giorno della presentazione del film Asmarina.
La giornata era bellissima, c’era un’aria fredda tipica milanese con un po’ di vento e ci siamo fermati a prendere un caffè prima di iniziare il nostro lavoro. Come sempre il caffè è il punto di partenza di tutto ciò che un italiano deve fare e io ho imparato ad apprezzare questo gesto, rappresentativo del modo di essere “italiano”. Nonostante il caffè non mi piaccia, qualche volta faccio un’eccezione. Pensare che a casa mia dove sono nata in Brasile in mezzo alla foresta mio papà coltivava un piccolo pezzo di terra a caffè (e con tante altre cose). Lui lo coltivava non perché noi lo bevessimo, visto che a nessuno a casa nostra piaceva il caffè, ma perché gli piaceva vedere l’albero del caffè e poi anche il suo profumo, una volta macinato. In questo caso io sono come il mio papà: non mi piace bere il caffè, ma essere presente con gli altri mentre lo prendono e anche sentire il suo profumo mi piace da morire. Questa volta ho preso il caffè con i potlachiani e la reazione a quel caffè per me è stata come aver preso una bomba. Dopo il caffè, ci siamo seduti in cerchio a terra, nella piazza. Abbiamo discusso di diversi punti del film, degli aspetti che ci avevano convinto di più e di quelli che ritenevamo più critici.
Foto di Giada Mascherin
A me il film è piaciuto molto. I registi sono riusciti tramite i racconti delle persone di origine eritrea che vivono a Milano a raccontare la storia complessa di un paese e di un popolo accogliente, ricco di cultura e con tanta voglia di libertà. Un paese il cui passato storico di colonia italiana ha lasciato un grande marchio sia positivo che negativo nell’aspetto culturale e politico della vita di tutti gli eritrei, principalmente di quelli che sono vissuti nella città di Asmara, capitale dell’Eritrea. Ho trovato nel film un racconto di grande nostalgia, ma anche leggero e poetico.
Le chiacchiere sono andate avanti a lungo, fino all’ora di pranzo e siccome eravamo nella zona dove si poteva trovare cibo eritreo non potevamo fare altro che mangiare cibo tipico. Ci siamo recati in un piccolissimo locale take-away. Gli ordini erano tanti e quindi c’era da aspettare mezz’ora o un’ora per la preparazione.
Ho approfittato di quell’attesa per staccarmi dal gruppo e andare a conoscere un po’ meglio il quartiere con i suoi negozi “etnici”.
Mi sono fermata davanti ad una vetrina, attratta dai bei vestiti bianchi di cotone. Si trattava di una sartoria, dove facevano e vendevano vestiti su misura con tessuto eritreo. Una signora di colore, con un viso simpatico, mi ha invitato ad entrare e io non ho rifiutato un invito tanto accogliente.
Come prima cosa essendo anche io di colore mi ha chiesto da dove venissi. Ho detto che ero brasiliana, di una regione che si chiama Bahia, la regione nera del Brasile con un grande legame storico con gli antenati africani… ho spiegato che ero in quella zona con un gruppo per un progetto di film documentario. La signora conosceva Alan. Aveva in mano un piatto e si vedeva che aveva appena finito di pranzare. Sono rimasta sorpresa dal suo invito ad assaggiare il cibo che aveva preparato per pranzo e che era avanzato. Ero un po’ imbarazzata dalla proposta ma, un po’ per la fame e anche per la curiosità di mangiare il cibo eritreo, ho accettato. La signora mi ha preparato un piattino di plastica con una porzione di riso e carne di pollo condita con le spezie piccanti del loro paese. Quando ho iniziato a dare il primo boccone usando le mani – come suggerito dalla signora “così si mangia in Eritrea” – ho sentito la forza del peperoncino in bocca, ma ho mangiato con molto gusto. Dopo il primo boccone mi sono avvicinata alla porta del negozio per vedere se il gruppo era ancora lì e ho notato che si stavano preparando per uscire dal locale. Mi sono affrettata a ringraziare la signora di quella accoglienza così gentile, avrei voluto finire di mangiare il suo cibo assieme a lei ma non potevo.
Vedevo nei suoi occhi la voglia che continuassi a stare con lei dentro al suo negozietto, magari per acquistare qualche cosa o magari per parlare un po’ più a lungo della nostra terra straniera così lontano da Milano. Uscendo dal negozio i miei compagni vedendomi con quel piattino di cibo in mano erano stupiti: sembrava strano che uscissi da un negozio di vestiti con roba da mangiare!
Mentre cercavamo un posto per mangiare tutti insieme, ho raccontato loro cosa fosse successo.
Foto di Alan Maglio
Siamo arrivati sotto gli alberi di Porta Venezia e ci siamo seduti sui gradini per mangiare. In quello stesso luogo dove mangiavamo e chiacchieravamo, i rifugiati eritrei si incontravano in estate per prendere aria fresca, per chiacchierare tra loro, conterranei, mangiare e ricevere donazioni da parte delle associazioni e Onlus impegnate nel sostegno dei rifugiati. Per noi essere lì era una curiosità, un’avventura ma penso che per loro fosse un luogo di incertezza. E forse di speranza, speranza di trovare un posto nel mondo, una possibilità di vita anche lontano da casa.
Finito il pranzo il gruppo si è diviso in due per andare a fare il colloquio con le persone coinvolte nel film. Prima di iniziare la chiacchierata non poteva mancare… che cosa? ovviamente il caffè, questa volta non l’ho preso perché quello del mattino era ancora a fare la sua digestione.