Riprendiamo la città. Lo sguardo degli altri #2

Asmarina e il mondo di Porta Venezia

di Michele Majidi e Giada Mascherin

Settimane e settimane di esplorazioni, mappe, schemi, simulazioni e fogli A0 che annegano in un oceano di post-it hanno inevitabilmente portato a un invidiabile consolidamento delle relazioni all’interno del gruppo Potlach. Con l’autunno, è giunto il momento di uscire fuori dal nostro bozzolo, la Casetta Verde in Giambellino. Di tessere relazioni, di porre domande, di ascoltare, di passare da teoria a pratica. In poche parole, di costruire il nostro film.

Una volta consolidati i rapporti tra noi, ci siamo posti la domanda di come rapportarci a una comunità più ampia. Di come negoziare e costruire uno spazio di relazione con i soggetti che vogliamo coinvolgere nel nostro documentario.

Una parte fondamentale su cui ci siamo fermati a riflettere è quella relativa le aspettative: le nostre aspettative rispetto al film che da lì a poco avremo iniziato a girare e quelle che noi stessi avremo creato nelle persone che decidevamo di coinvolgere. Come facevamo ad esser certi di non illudere e deludere le persone che avremmo coinvolto? Come facevamo ad esser certi che, nessuna delle persone coinvolte si aspettasse di diventare “famosa”, conosciuta e riconosciuta grazie al nostro film? Oppure, al contrario, come avremmo fatto a coinvolgerla e rassicurarla nel caso in cui proprio la telecamera l’avesse spaventata e messa in pericolo esponendola a sguardi non desiderati?

Quale tipo di relazione, allora, avremmo dovuto costruire con i nostri interlocutori? Come ci saremmo dovuti porre nei loro confronti!?
Come fare ciò senza dimenticarci della nostra autorialità e dunque della nostra responsabilità?

Per cercare di affrontare e capire al meglio la nuova parte del nostro percorso, siamo stati guidati allo studio e alla ricerca di un progetto simile, l’esperienza di un altro regista, Alan Maglio, con cui abbiamo trascorso due giorni a stretto contatto.
Come già raccontato, Alan è, insieme a Medhin Paolos, regista di Asmarina, docufilm sulla comunità eritrea di Porta Venezia.
Uno degli aspetti che più ci ha colpito del racconto del regista è legato al tempo speso per costruire relazioni con le persone che sono – a vario titolo – diventate parte del documentario. Alan racconta come una parte fondamentale del suo lavoro sia consistita nello stare seduto giorno dopo giorno ai tavoli di uno dei bar del quartiere, che appare in alcune scene del film. Di come in questo modo si sia fatto conoscere prima dalla proprietaria (emigrante eritrea in Italia ormai da moltissimi anni) e via via dai frequentatori. Dal suo racconto, abbiamo capito più da vicino quanto un film di questo genere, si costruisca passo dopo passo; quanto, seppur si abbiano delle chiare idee iniziali, tutto potrebbe esser stravolto, arricchito o modificato da eventi casuali, più o meno ricercati.

L’importanza di stare sul campo e di tessere relazioni di fiducia guida il percorso di costruzione del film. Se siamo abbastanza bravi, le relazioni che costruiamo producono cortocircuiti in grado di dare una svolta decisiva. Nel caso di Alan, ad esempio, la famosa colonna sonora del film cantata da uno dei protagonisti è entrata nel film grazie ad incontro casuale ed estremamente fortuito.

Alan è partito da un luogo. Da Porta Venezia. “Prima del racconto c’è una socialità che già esiste.” Asmarina è stato descritto da Alan come “un atto di amore per le persone che conosco, e per Porta Venezia.” Alan ci racconta di aver scelto Porta Venezia perché, come tanti quartieri oggetto di migrazioni storiche, è un “fenomeno naturale”, molto conosciuto anche nella stessa Asmara.
Secondo Alan, costruendo una relazione di fiducia con i propri interlocutori e facendo leva sul tempo e sulla pazienza alla fine “tutti vogliono esserci di più nel film, sia davanti alla telecamera che dietro”, collaborando in vari modi. Nel caso di Asmarina, il passaggio da socializzazione iniziale con i soggetti e riprese con la telecamera è avvenuto molto naturalmente: “un giorno lo abbiamo semplicemente fatto”, la telecamera è spontaneamente entrata in scena. Il film viene fatto con gli altri, certamente, ma il compito del regista è fare da guida e dargli una struttura. La fase di montaggio del film è di cruciale importanza. E’ molto facile immergersi profondamente in queste storie. E possiamo correre il rischio di “perderci” un pochino nelle parole, nei gesti, nelle variopinte storie dei nostri personaggi. Qui entra il montatore in veste di scialuppa di salvataggio: il montatore e il regista si completano vicendevolmente, nella costruzione del ritmo del film.

Durante la giornata trascorsa “sul campo” a Porta Venezia abbiamo avuto la possibilità di avere un riscontro e un “contraltare” di quanto esplorato attraverso il racconto di Alan. Incontrare alcuni dei protagonisti – diretti ed indiretti – del documentario ci ha permesso di confrontarci con il tema delle aspettative, che, come detto, abbiamo compreso essere un nodo fondamentale della nostra riflessione in questa fase.

Durante la mattina abbiamo fatto un gioco: seduti a terra approfittando di un inaspettato sole di novembre, abbiamo provato ad immedesimarci nei diversi “personaggi” raccontati dal documentario. Quel che ci premeva era capire come ci saremmo sentiti nei loro panni e quali, secondo noi, lavorando per empatia, potessero essere i punti più critici. Sulla base di questo piccolo “gioco di ruolo” abbiamo provato ad elaborare alcune domande, da rigirare agli interlocutori con cui Alan ci aveva messo in contatto, che avremmo incontrato nel pomeriggio.

Con la pancia piena di injera e zighinì, divisi in due diversi gruppi, ci sediamo in alcuni caffè della zona.
Un gruppo incontra M., un signore distinto e arguto, una settantina d’anni. Padre italiano mai conosciuto, madre eritrea, rimpatriato in Italia e per una vita intera a navigare tra due identità. “Ci sono tanti, tanti meticci come me, figli di italiani ed eritrei, concepiti e abbandonati. La storia dei meticci esce chiaramente nel film. Io voglio raccontare a tutti la mia, la nostra storia. Quando cammino per strada, chi mi conosce? Quando uno soffre da ragazzo, soffre la povertà, impara tantissime cose.” Le aspettative di M. rispetto ad Asmarina sono state incentrate sul tema dell’identità e della memoria. Sul suo rapporto con un paese, l’Eritrea, che sente come suo, come lontano e vicino allo stesso tempo. Un paese verso cui vorrebbe tornare per lì concludere la sua vita. Sebbene sia contento della voce che ha avuto nel film, M. critica alcuni commenti di carattere politico che, a sua detta, sono presenti nel film. “In tutti i Paesi africani, c’è questa fretta a bollare interi contesti, interi Paesi, come in mano a ‘dittatori’. Per dire ‘dittatore’ a una persona, devi prima vedere con i tuoi occhi.” M. si ferma un momento, chiude gli occhi e respira profondamente. “Per me è sbagliato. Veniamo da un paese incredibilmente vario, un paese multiculturale e multi-confessionale. Non si può generalizzare così, dipingere un quadro così negativo delle cose. Quando uno racconta la sua storia, deve raccontare la sua storia. Non la politica.”

Completamente diverso è il punto di vista di S., eritrea da molti anni in Italia. S. non appare nel documentario, eppure, come ci racconta Alan, ha avuto un ruolo fondamentale nel film, attraverso i suoi racconti e i contatti che ha fornito ai registi. “Tutto parte dalla politica. Tutto. Anche il mio stare qui.” Davanti ad un tè nero molto speziato, S. racconta al secondo gruppo di come, a suo parere “Gli eritrei amano la loro patria alla follia. Diranno di essere contro il regime solo in assenza di testimoni.” Attraverso uno sguardo lucido S. ci apre uno squarcio sulle contraddizioni e i “non detti” della diaspora eritrea milanese e al tempo stesso ci permette di guardare al film e all’intreccio delle storie che esso ci racconta in una maniera diversa, più complessa.

Comprendiamo che ci sono diversi livelli di lettura nel documentario e molte tensioni che non è facile cogliere immediatamente. Al tempo stesso ci appare chiaro come ciò che ha permesso ad Alan e Medhin non di risolvere ma di poter far stare insieme e rappresentare una accanto all’altra le diverse e molteplici anime della comunità eritrea a Milano forse è stato proprio il tempo trascorso e dedicato ad ascoltare i racconti delle persone, tutte. Quelle incontrate una volta per caso e quelle che è stato necessario “corteggiare” per mesi, a volte senza successo. Comprendiamo, insomma, ancora una volta, come la qualità della relazione che costruiamo con i nostri interlocutori sia l’elemento fondamentale del film che vogliamo costruire: non è possibile rappresentare la complessità senza tenere conto dei legami.

Foto di Giada Mascherin

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