Riprendiamo la città. Isola

Nella terra di mezzo

di Marta Marzorati e Marta Meroni

Esplorazione del 16 luglio 2016

Durante il percorso Potlach Milano abbiamo incontrato Francesca Marconi, artista relazionale, che da anni sperimenta alla ricerca di nuovi linguaggi e conduce progetti che intersecano pratica artistica e riflessione su tematiche interculturali.

A suo parere l’arte può essere uno strumento prorompente per abbattere le retoriche identitarie promosse a livello istituzionale e nel discorso pubblico. Può aiutarci a costruire nuovi immaginari, legami e connessioni secondo una prospettiva interculturale. E questo è quanto siamo stati invitati a scoprire assieme a lei nel corso di una giornata laboratoriale intesa, in bilico tra formazione e performance, che abbiamo vissuto a metà luglio tra gli spazi dell’Isola, per molti quartiere-simbolo della gentrificazione milanese.

Verso nuove intese
Naviganti naufragati tra i relitti non già della Medusa, ma piuttosto di un Ligresti, e delle cementose fronde del Bosco Verticale, Francesca ci ha invitati per prima cosa a ricostruire la nostra personale zattera – emblema del viaggio, di un momento di sospensione, di quella terra di mezzo che eravamo determinati ad esplorare. Avendo scelto ciascuno un ruolo, a suon di piedi in faccia e palpeggiamenti ci siamo posizionati cercando di riprodurre al meglio il quadro di Gericault. Tra le nostre risa e quelle dei passanti, siamo riusciti nell’impresa tenendo anche per qualche sudacchiato minuto la posa, formicolanti ma con pathos e plastico orgoglio. Non eravamo nuovi ad attività di gruppo non convenzionali, in cui venisse richiesta l’attivazione di capacità di ascolto, supporto e connessione.

Eppure, come equipaggio della zattera, in maniera quasi catartica abbiamo esperito l’importanza della relazione tra gli elementi (gli individui) rispetto all’oggetto (la ricerca).


Connessioni
Ritrovata la salvezza a Piano Terra, isola (autogestita) nell’Isola che ci ospitava per la giornata, Francesca ci ha chiesto di provare costruire a gruppi le nostre costellazioni della lontananza. Non riconoscendoci in questo concetto un po’ malinconico, ogni gruppo ha rivisto l’esercizio provando a tracciare sulle carte del cielo i segni di una mappa che connettesse i punti-esistenze dei singoli partecipanti secondo un’altra luce. Ispirati ciascuno da un determinato concetto, ogni gruppo ha lavorato sui singoli racconti-puntini, riconfigurandoli in una nuova narrazione, la Costellazione, in cui potenzialmente ognuno poteva riconoscersi.

E così nei nostri cieli sono emerse la Costellazione della Balena, ovvero delle figure guida che ci hanno accompagnati nel corso delle nostre vite, a rappresentazione dell’orientamento. La Costellazione Telos, ovvero dei desiderabili punti fermi del nostro essere, a cui continuamente tendiamo, e che riguarda quindi la tensione verso. La Costellazione dell’Aquilone, che con il suo lasciarsi portare dal vento è simbolo di indeterminazione. La Costellazione dell’Esploratore Libero, che, pur essendo fatta di stelle che rappresentano alcune nostre qualità, con il suo braccio stellato indica orizzonti sconosciuti, ancora da scoprire.

La costellazione della Balena

La costellazione Telos

La costellazione dell’Aquilone

La costellazione dell’Esploratore Libero

Orizzonti
L’incontro e la condivisione di storie e memorie l’abbiamo poi ricercato in mare aperto, nelle strade del quartiere. Come ci era già capitato con le mappe a San Siro o le carte Dixit in zona Milano Sud, anche questa volta abbiamo navigato tra le onde di Milano muniti di un equipaggiamento solido e strutturato, ma disposto a rimanere flessibile nell’incontro con l’altro.

Abbiamo infatti condotto l’esplorazione attraverso un dispositivo linguistico, la traduzione, che si è rivelata essere una chiave sorprendente, capace di aprire – nella relazione con i nostri interlocutori – le porte della narrazione spontanea. Sulla scia di un lavoro già condotto dalla nostra mentore del giorno, Francesca, ogni gruppo si è fatto portatore delle parole di Omero, stampate in diverse lingue, e le ha portate nella città per darle voce. Ogni gruppo ha scelto infatti un passo dell’Odissea e ne ha selezionato tra le righe del testo cinque parole a seconda delle diverse sensibilità e a quanto emerso dal lavoro sulle costellazioni.

I nostri interlocutori-Ulisse avrebbero dovuto – se incuriositi dalla pratica – tradurre nella propria lingua di origine o in una seconda lingua conosciuta, che sentivano propria, le parole selezionate da ciascun gruppo. Nell’incontro quindi abbiamo decostruito i testi, al fine di ricostruire paesaggi simbolici e orizzonti di senso nuovi, dando vita a panorami sonori plurilinguistici. Come quello in cui si sono trovati immersi alcuni di noi, addentrandosi tra le bancarelle caotiche del mercato del sabato mattina di Piazzale Lagosta.

Youssef, dal Marocco, ci recita le parole che più l’hanno colpito e che sa riconoscere: padri, desiderio e ritorno. La traduzione ci racconta molto, in una prospettiva in cui la lingua non è un semplice veicolo comunicativo, una competenza all’utilizzo di segni convenzionali, ma è la capacità di attribuire significati che sono culturali e sociali.

Beatrice dalla provincia di Foggia – dapprima intimidita credendoci venditori di non si sa cosa – si lascia andare quando le spieghiamo che la nostra esplorazione ha l’obiettivo di scoprire nuovi suoni e nuovi significati, e che non siamo solo interessati alla lingua araba o filippina o tailandese, ma anche ai dialetti, che ancora rappresentano intere comunità, geograficamente non così distanti da noi. Non contengono il potenziale “esotico” così attrattivo per molti esploratori contemporanei, ma raccontano di ibridazioni passate e ancora presenti, che si riformulano costantemente nella pratica.

Incontriamo i due ragazzi in una bancarella di vestiti, dove il ragazzo lavora con una simpatica e sdentata signorotta, che mentre chiacchieriamo fa capolino tra le canotte e gli abitini, e poi si dilegua ridacchiando. Li blocchiamo in un momento di flirt, come al solito inevitabilmente invasivi, ma i ragazzi reagiscono bene e sono disposti ad aiutarci con la traduzione. Complici, ripetono e traducono uno di seguito all’altro le parole.

Tornando alla base ci resta da portare a termine un ultimo compito, consegnatoci da Francesca: fotografare un orizzonte.
C’è chi, provocatoriamente, individua nell’orizzonte la parete specchiata del negozio Nike di Piazza Gae Aulenti; chi la 90/91, la circolare che unisce Milano o forse divide un dentro e un fuori; chi si arrampica sul parapetto della ferrovia cercando le montagne, orizzonte che fa respirare Milano, in certe giornate.

Ma gli orizzonti che più ci portiamo a casa da questa giornata sono le parole, le lingue, i suoni, i mondi narrati ed evocati che questo piccolo esercizio ha innescato. Ci portiamo a casa la potenza dei racconti e la loro capacità di allargarli, sempre, gli orizzonti.

foto di copertina di Tommaso Turolla

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