“Ovunque si vada, mettiamo radici”. Anche in via Padova
di Tommaso Turolla
Esplorazione del 18 giugno 2016
Il gruppo Potlach desidera fare e sta provando a fare molte cose. Al di là di un documentario a regia collettiva, che dovrebbe essere il, o meglio un, punto di arrivo. Tra le altre, una delle più importanti è senz’altro quella di imparare a esplorare Milano, alla ricerca di tutte quelle pratiche quotidiane, forme di associazionismo e incontro che la rendono un grande e unico “laboratorio” interculturale.
Questo sabato, come altre volte, il gruppo si ritrova per mettere in pratica sul campo le tecniche di linguaggio audio-visuale apprese, facendo inoltre tesoro dei tanti dibattiti sul concetto di intercultura, dei seminari con cui si è riflettuto sulle diverse forme di abitare la città, dei laboratori di gruppo, tesi a sperimentare e riflettere sui diversi modi per raccontare le proprie identità e quelle degli altri. E, come altre volte, si parte da un’idea di lavoro ampia, senza persone o contesti di lavoro rigidamente prefissati a priori. Liberi di far fluttuare il proprio sguardo. Potenzialmente, il campo di gioco è l’intera città. Ci dividiamo in tre gruppi: ognuno deve provare a realizzare una video-intervista con un abitante di Milano e ripercorrere la sua storia di vita, cercando di far emergere le esperienze, gli incontri e le svolte che hanno segnato il suo passato, che informano il suo presente e le sue aspirazioni future. Iniziamo a discutere sui possibili contesti di ricerca e tra le varie proposte emerge, e ritorna, via Padova.
Diversamente dall’esperienza di Migrantour, questa volta tocca a noi individuare una persona con cui dialogare e attivare un racconto.
Via Padova è il quartiere-via dove abito da ormai quasi un anno, l’idea di andarci in una veste diversa, come esploratore Potlach, mi entusiasma. Così mi unisco al gruppo.
Attrezzature e camere in spalla, sguardo attento e pronti a immaginare, raggiungiamo Piazzale Loreto e iniziamo a risalire la via. Ma è già ora di pranzo. A stomaco vuoto di certo non è possibile svolgere un buon lavoro né farsi venire buone idee. Dopo un breve dibattito culinario, propongo di andare in un minuscolo take away filippino a due passi da casa mia, in via Clitumno. Nonostante la comunità filippina sia la più grande in città dopo quella italiana, si tratta di una cucina non così diffusa a Milano: può essere un modo piacevole per disporci allo “spaesamento”. Davanti a tanti deliziosi piatti di cui è difficile ricordare il nome (menzione d’onore però per il sisig: straccetti di carne di maiale piccanti con uovo e verdure, serviti su un piatto rovente), cerchiamo di capire dove possiamo muoverci per la nostra esplorazione pomeridiana.
È un sabato soleggiato, il Parco Trotter sembra un buon campo di ricerca per trovare una persona disposta a raccontarsi. Ci si offre però una possibilità più concreta e ugualmente interessante: uno di noi, Alfred, ha avuto occasione di collaborare con la Casa della cultura musulmana di via Padova 144, uno dei più importanti luoghi di preghiera per le comunità musulmane di Milano. Dopo averlo contattato, il presidente Benaissa Bounegab si rende disponibile ad incontrarci. Ci complimentiamo con la cuoca e ci avviamo.
La Casa è piuttosto nascosta, si trova dentro un cortile di un alto complesso residenziale. Pur conoscendo quel luogo da tempo, ora vi entro per la prima volta. Alla fine della rampa di ingresso troviamo Benaissa ad accoglierci, sorridente: ci presentiamo, gli raccontiamo del progetto Potlach, spiegandogli che la nostra è un’esercitazione, in vista del nostro futuro documentario collettivo. All’entrata ci togliamo le scarpe e Benaissa ci accompagna nella stanza antistante la grande sala di preghiera, dalle pareti azzurre e illuminata da fredde luci al neon. Ci prendiamo qualche minuto per posizionare la camera, decidere l’inquadratura e assicurare il microfono. Nel frattempo chiacchiero con Benaissa, sarò io a intervistarlo. Spegniamo il ronzante ventilatore e accendiamo la camera. Alla mia prima domanda Benaissa risponde in modo tranquillo e pacato, il che mi fa pensare che abbia una esperienza con le video-interviste ben più ampia della mia. Vorrei concentrarmi sulla sua storia personale, ma ben presto emerge il suo delicato ruolo “pubblico”, il suo sentirsi rappresentante e voce di una comunità molto ampia ed eterogenea. Mi racconta quindi dell’importanza del luogo in cui ci troviamo, degli ormai ventennali sforzi per ottenere uno spazio di culto ufficialmente riconosciuto per la preghiera. “Via Padova 144”, contemporaneamente sede dell’associazione e sala di preghiera, è frequentata settimanalmente da quasi cinquemila fedeli che arrivano da decine di paesi diversi. Non è semplice gestire una comunità così eterogenea e in piena trasformazione.
Le vicende della Casa della cultura musulmana si inseriscono poi in uno scenario molto complesso. A Milano l’immigrazione da paesi a maggioranza religiosa musulmana inizia già dagli anni Ottanta. Si tratta di una fascia di popolazione oggi composta da circa centomila persone, di cui solo una minoranza può però dirsi “praticante”. Non c’è un’unica comunità o un’associazione di riferimento: dietro l’etichetta “musulmano” si dispiegano una grande varietà di provenienze, pratiche, lingue, livelli di istruzione e appartenenze sociali che si traducono in molteplici forme associative e affiliazioni politiche. Come mi racconta Benaissa, qui «trovi dall’analfabeta che non è mai stato a scuola a chi ha il PhD, gente che ha il massimo diploma, professori, medici… Gente che esercita nel proprio paese e poi quando arriva qui non vede riconosciuto il suo diploma e quindi passa a lavorare in settori come quello delle pulizie…».
A Milano in effetti non esiste una vera e proprio moschea, la sola ufficialmente riconosciuta è a Segrate, un comune a nord-est della città. È l’unica struttura attiva appositamente costruita per il culto in Italia, insieme a quelle di Roma, Ravenna e Colle Val d’Elsa (ve ne sono circa duecento in Francia, cento in Olanda e circa settanta in Germania…), a fronte di circa un migliaio di spazi di preghiera “informali”. Le tante comunità sono spesso costrette a trovare posto in tendoni, scantinati o altri luoghi seminascosti o improvvisati e la stessa Casa della cultura musulmana è sostanzialmente un capannone riadattato. Da anni le varie associazioni milanesi chiedono al Comune il permesso per la costruzione di una moschea, ma non è stata trovata ancora alcuna soluzione. Un bando della giunta Pisapia per la concessione di due spazi per la costruzione di una struttura dedicata non ha fatto che mettere le diverse realtà in concorrenza, salvo poi essere comunque bloccato dalla nuova legge regionale – voluta dalla giunta di Roberto Maroni e soprannominata legge anti-moschea – che ha posto una quantità di vincoli tale da rendere di fatto impossibile costruire una moschea nel breve termine.
Eppure, nonostante le tante differenze interne, la comunità musulmana si è stabilita nel quartiere sin dagli anni ’70, trovando qui l’accoglienza di vari gruppi sociali. «Via Padova è una via molto generosa.»
E per questo Benaissa ringrazia innanzitutto il Leoncavallo, storico centro sociale milanese, che ai tempi aveva sede nell’omonima via: «Nel ’75, con la nascita del Leoncavallo, gli autoctoni, spaventati, si sono messi ad affittare le case, quello che avevano, all’epoca eravamo studenti e cercavamo un posto che andasse bene… qui siamo riusciti a trovare case, luoghi di preghiera…». Per questo desidera, con i tanti gruppi che si trova a rappresentare, un luogo riconosciuto, dalle «porte “belle aperte”: avere un posto per noi non significa che non abbiamo nessuna integrazione, o un’incapacità a convivere con gli altri». Si tratta di una premessa fondamentale per avere un ruolo nella città che sia “ufficiale” e quindi pubblicamente riconoscibile, che permetta di uscire da una condizione di precarietà (la stessa Casa della cultura musulmana è a rischio sfratto) che non che fa che rendere più forte la diffidenza reciproca all’interno e tra le varie comunità. Non si riferisce perciò alla tanto pretesa necessità che tutti “si integrino”, ma alla speranza di poter porre le basi per una «vita normale» per tutti: «Perché sennò il tessuto di una città come Milano rimane formato da pezzi dove non c’è interazione tra l’uno e l’altro… La città deve essere continua come se fosse un bel tappeto, dove ogni parte ha il suo valore, la sua considerazione, gioca il suo ruolo, che non viene chiamata in causa solo quando succede… un evento come quello di Charlie Hebdo».
In questo senso Benaissa nota come la vita delle associazioni musulmane e dei suoi partecipanti sia diventata più difficile negli ultimi anni e critica l’intolleranza montata ad arte da alcune voci del mondo dell’informazione e da alcune forze politiche. Questa poco velata ostilità (o colpevole incomprensione) impedisce l’incontro e lo sviluppo di un senso di appartenenza tra ogni abitante o migrante: «è come se uno avesse un orto e lo lasciasse crescere da solo: è chiaro che alcune erbacce vengono fuori. Chi ha un campo lo deve lavorare… Poi vedete una pattuglia di polizia, una dei carabinieri… Avete mai visto uno di colore, uno diverso in una pattuglia di polizia? Andate in ufficio postale, guardate gli sportelli: voi troverete sempre lo stesso colore. Si parla di immigrazione, ma non si dà la possibilità all’immigrazione di far parte la società. Integrarsi non significa sciogliersi…».
Le sue parole mi riportano alla mente tutta la rabbia che provo quando sento ripetere dai media alcune espressioni che non fanno che alimentare gli insensati stereotipi che impregnano una certa opinione pubblica su via Padova, che la ritraggono di volta in volta come «ghetto», «casbah», «Bronx», «zona allo sbando», dove «l’illegalità è prassi» e in cui le forze dell’ordine non possono accedere. (Eppure la via è costantemente presidiata da una camionetta militare, verso piazzale Loreto, ed è regolarmente attraversata dalle volanti della polizia e dei carabinieri in ogni momento del giorno e della notte). Episodi piuttosto recenti come gli attentati parigini di Charlie Hebdo o del Bataclan hanno portato certi giornali a identificare la via come una delle tante «Molenbeek d’Italia», insieme a quartieri come Porta Palazzo a Torino e Tor Pignattara a Roma. Non parlo solo della stampa apertamente conservatrice. La scorsa primavera ricordo di aver visto numerosi video di trasmissioni televisione, tutti molto simili tra loro e costruiti sulla paranoia: colonna sonora orientaleggiante, una perentoria dichiarazione (via Padova «è una delle piccole Molenbeek d’Italia»), e l’informazione finisce per riassumersi in una rassegna di opinioni qualsiasi dei passanti, le stesse che leggono sugli articoli di certa stampa mainstream («sono tutti stranieri», «sono un pericolo questi immigrati», «sono troppi, c’è troppa libertà»…). Non c’è nessuna argomentazione o racconto del quartiere, nessuno di questi “stranieri” viene intervistato, ma soltanto ripreso a debita distanza.
Nella foto la sala di preghiera della Casa della cultura musulmana durante la festa di Eid al Adha; fonte: pagina Facebook della Casa della cultura musulmana.
Se in questi casi vengo preso dallo sconcerto e dalla rabbia (ma non solo io) è perché, come abitante e ricercatore, mi accorgo di quanto siano infondati e pericolosi tali paragoni. Paragoni che stigmatizzano indiscriminatamente il quartiere insieme con le persone che lo compongono. Paragoni il cui unico obiettivo è cavalcare l’ansia collettiva e non quello di dare una rappresentazione utile per comprendere le complessità di questo luogo.
Sebbene la popolazione di origine “straniera” sia più numerosa qui che in altre zone della città, dentro questa categoria onnicomprensiva vengono racchiusi gruppi di abitanti di almeno cinquanta nazionalità diverse, con diverse pratiche quotidiane, diverse condizioni sociali e modi di relazionarsi nella città, che rendono via Padova qualcosa che non c’entra nulla con un ghetto o certe banlieue franco-belghe – ben più omogenee sia da un punto di vista di composizione etnica che di strutture residenziali.
Certo, in via Padova e nelle sue traverse non mancano criticità e contraddizioni. Agli eleganti palazzi popolati dalla classe media o da famiglie benestanti se ne alternano altri in uno stato di degrado strutturale, con fenomeni di speculazione, subaffitto e sovraffollamento degli alloggi. Vi sono situazioni di indebitamento, disoccupazione e di economie sommerse fatte di spaccio e prostituzione, che talvolta si traducono nello spazio pubblico in momenti di scontro e tensione tra le varie comunità. Questi fenomeni però non sono che una parte della vita del quartiere, e spesso sono rappresentati strumentalmente in narrazioni sensazionalistiche che non dicono nulla delle pratiche interculturali che la animano quotidianamente, delle diverse comunità che si mescolano per la via, nei suoi market e nei suoi bar.
Vivere in via Padova mi ha dato la possibilità di prendere parte a tante nuove esperienze introvabili in molti altri contesti milanesi. Allo Spazio Ligera ho ballato al ritmo spezzettato di una jam session di percussioni africane, in via Esterle ho ammirato i colori degli orti sociali e dell’apicoltura urbana, mi sono fatto regolarmente prendere dalla fame odorando il profumo del pollo asado e delle spezie mediorientali che si diffondono per la via dall’ora di pranzo fino a tarda sera, ho gustato dolci come il baklawa e il kunafa nelle pasticcerie arabe, mi sono tagliato i capelli finendo per assomigliare a certi centravanti della Serie A, ho ringraziato gli aggiustatutto cinesi per aver rimesso miracolosamente in vita il mio pc.
Ho passato poi tanti fine settimana in quello straordinario laboratorio di incontro che è il parco Trotter, con le sue quattro scuole, assistendo ai combattutissimi tornei di pallavolo della comunità trans sudamericana e alle partite di calcio con porte improvvisate tra ragazzi di tutte le età. E qui ho preso parte alla giornata dei diritti dei bambini, organizzata da Città del Sole e dalle tante altre associazioni attive nel parco, in cui i piccoli studenti hanno sfilato per il quartiere accompagnati dall’allegra fanfara dei Nema Problema (è il loro suono ad avermi tirato giù dal letto!), arrivando infine al Trotter, dove ho provato cibi da tutto il mondo preparati dai loro genitori, dandomi a laboratori di yoga e di djembe, mentre ascoltavo favole raccontate in tante lingue diverse.
Benaissa comincia poi a raccontarmi della sua storia di migrazione, di come abbia deciso di rimanere in Italia. Ad oggi, ripensandoci, penso sia stata la parte più emozionante dell’intervista. Mi racconta come il suo sia un caso fortunato, si è potuto trasferire dall’Algeria all’Europa grazie a una borsa di studio. Ha scelto l’Italia per una ragione abbastanza sorprendente: «mi chiederete perché non la Francia, la Germania… Dove le cose stanno meglio. Ho deciso umilmente, e anche con una certa ingenuità: all’epoca ero giovane, facevo il calciatore, e volevo studiare. Ho trovato che la mentalità più vicina alla mia è quella italiana: siamo mediterranei. Io amavo il calcio, e in l’Italia negli anni ’70 il calcio viveva un boom tremendo!». Passano gli anni, la traballante situazione politica algerina e poi la nascita dei figli portano Benaissa a stabilirsi definitivamente in Italia: «sono passati quarantuno anni e non mi sono neanche accorto».
Così scopro che Benaissa vive a Milano da trentasei anni prima che anche io mi trasferissi nella stessa città. Eppure per molti è lui rimanere lo “straniero”. «Ogni persona ha le sue ragioni per spostarsi, per arrivare a vivere per anni in un altro paese… Siamo un po’ come le piante: ovunque si vada, mettiamo radici. Poi alla fine, non perdi, ma ti dimentichi, perché da quest’altra parte crescono in un’altra direzione, e tu cresci con la società dove vivi. E cosa succede? Succede che alla fine diventa difficile tornare… Adesso l’albero è diventato troppo grande, le radici sono andate in profondità, sradicare tutta una famiglia nata, cresciuta, che ha studiato qui… Ti ritrovi nel tuo paese d’origine come immigrato mentre qui non sei accettato».
Dalle sue parole traspare come la nascita dei figli sia stata una fondamentale svolta della sua vita, sono parole che esprimono allo stesso tempo affetto e conflitto. Due aspetti forse parte di ogni incontro interculturale. Ora i suoi figli sono cresciuti, «hanno vissuto come voi, hanno una mentalità di uno che è nato e cresciuto a Milano». Per questo Benaissa mi confida che quando c’è da affrontare una decisione, quando c’è un dibattito famigliare, «mi devo difendere, perché sennò divento una minoranza. Queste sono un po’ le società, i gruppi che nascono dall’immigrazione. Per noi non è facile, io mi diverto un po’, però non è facile».