Riprendiamo la città. San Siro #2

Quando una mappa non può bastare

di Tommaso Santagostino e Valentina Vita

Esplorazioni del 28 maggio e 23 luglio 2016

Ridurre la realtà a categorie di facile lettura può essere un esercizio pericoloso quanto funzionale a veicolare un particolare messaggio. Anche la geografia non è esente da queste responsabilità e se pensiamo alle informazioni che possono essere inserite o meno su una mappa ci rendiamo presto conto di come esse possono in alcuni casi confondere la realtà invece che aiutarne la comprensione. Il modo in cui la mappa viene costruita ci fornisce spesso molti più dettagli relativamente al suo autore che rispetto a ciò che vi è rappresentato. Allo stesso tempo ogni rappresentazione della realtà come mappa può non essere fatta di soli segni grafici, ma anche di parole che costruiscono discorsi, veicolano aspettative e determinano conclusioni. Oggi sarà il rovescio della medaglia di ciò che vi abbiamo raccontato a proposito delle nostre esplorazioni in quel di San Siro, perché in questi mesi ci siamo esercitati a lungo per imparare a ricollocare in continuazione il nostro sguardo sulle cose.
Vi abbiamo raccontato della nostra esplorazione matite alla mano a caccia delle mappe mentali degli abitanti della zona.

Come sempre disseminati in giro a piccoli gruppetti, alcuni di noi hanno pensato che fosse interessante osservare le rappresentazioni “ufficiali” sul quartiere e seduti sulle sedie di plastica di un bar, davanti a un caffè, abbiamo iniziato a leggere alcuni quotidiani. Sfogliando i giornali come una guida turistica siamo andati alla ricerca della mappa della zona che la cronaca disegna con le sue parole stampate. Il quartiere operaio sorto negli anni ‘40 e cresciuto via via nella sua vocazione popolare, ma “per bene”, oggi è nella grande maggioranza dei casi descritto come quartiere-ghetto invivibile. La stampa gioca molto sulla costruzione del “ghetto” quasi volendo collocare fisicamente San Siro fuori dal tessuto urbano di Milano descrivendolo come un avamposto di una qualsiasi metropoli del Nord Africa.

Periferia islamica, leggiamo, e i suoi abitanti colonizzati dalla casbah, dai veli, dai sospetti integralismi, dalle risse e dagli accoltellamenti; nelle vie la puzza di cipolle e spezie si diffonde senza limiti e l’arabo, ormai diventata lingua ufficiale di questa extraterritorialità, risuona come una litania che rimbalza opprimente tra le bancarelle dei mercati. Non tutto sarebbe ancora perduto secondo le cronache, perché delle antiche vestigia di ciò che era San Siro (quando presumibilmente ancora Italia) possiamo ritrovare le statue delle madonne poste nei cortili tra i palazzi a memoria degli scampati bombardamenti durante la guerra. L’allarme è rosso, proprio in questi giorni stanno scomparendo misteriosamente anche questi ultimi baluardi di resistenza, trafugati senza rispetto al suono soffuso di qualche litania.

Questo quadro non ci dissuade affatto dal riprendere la nostra esplorazione, semmai abbiamo più coraggio perché vogliamo finalmente incontrare le persone. Come si può rappresentare San Siro? Chi soprattutto la rappresenta? Ci alziamo dal bar con un’energia differente rispetto a prima, consapevoli del fatto che le rappresentazioni del quartiere che andremo a raccogliere dovranno essere ampie e capaci di descrivere, anche se certamente non di esaurire, la vitalità del quartiere. Riprendiamo la nostra ricerca meno sicuri di cosa troveremo, se disegni, colori o semplici schizzi sul foglio, ma determinati a capire chi sono le persone che vivono qui. I segni che ci restituiranno ora sono meno importanti.


Domenico

In un cortile delle case popolari Domenico tira fuori un tavolino da un piccolo sgabuzzino comune e si siede. Noi siamo intorno a lui, chi in piedi, chi sul muretto. I grandi alberi presenti tra le case ci fanno ombra, proteggendoci in parte dal caldo estivo. Domenico ama parlare con la gente, abita qui a San Siro dal 2010, prima risiedeva in altre zone della città. Nato a Taranto, dal 1967 vive a Milano. «In quartiere socializzo con tutti e svolgo quotidianamente servizi di sportello sociale, però lo faccio in strada perché in strada c’è sempre qualcosa da fare. In casa ci sto pochissimo, mi piace stare all’aperto e appena esco dal cancello inizio a lavorare». Domenico dice di stare bene con tutti, che può andare ovunque perché le persone lo accolgono sempre degnamente: «il futuro mi porta verso le persone, perché le persone ci saranno sempre».

Mohammed
Incontriamo Mohammed, egiziano sulla cinquantina, su una panchina di piazzale Selinunte; è sabato pomeriggio ed è un via vai di gente, soprattutto bambini e ragazzi che giocano nel parchetto proprio in mezzo alla piazza. Mohammed lavora a Melegnano e ogni giorno da casa sua, poco lontano da dove ci troviamo, va alla metropolitana di Famagosta perché una macchina di parenti-colleghi lo attende per proseguire il viaggio. Il panorama che osserva dall’automobile non gli piace per niente, non c’è nulla che lo attiri, ormai lo conosce a memoria, invece ama moltissimo il parco di Trenno perché lì va a giocare a calcio e può stare con gli amici. «Il sabato vengo sempre qui per riposarmi dalle fatiche del lavoro, se la settimana prossima tornate ci vediamo», ci dice salutandoci.

Hassan
Seduto sulla stessa panchina con Mohammed c’è Hassan. Sono coetanei. A entrambi abbiamo dato la possibilità di disegnare, ma se il primo più che altro ci ha raccontato a parole la sua San Siro, Hassan sembra essere molto più a suo agio con le matite. Subito disegna le tre case dove ha abitato in zona e non appena terminata l’ultima scuotendo la testa ci dice che non si trova bene a San Siro, nelle palazzine è pieno di stranieri e quando abitava con italiani era in mezzo a brava gente, ora solo problemi e polizia. Mentre disegna piazzale Selinunte, verde con gli alberi colorati, ci dice che qui viene spesso a bere il caffè con un amico. Gli piacerebbe andare in posti dove ascoltare musica, ma sono frequentati da troppi giovani. Poi la moschea, «che peccato non andarci più spesso, però con il lavoro proprio non riesco, allora prego anche a casa… Andare in moschea mi piace perché incontro chi non vedo tutti i giorni. Sapete, non esco spesso dal quartiere, ora meno che prima. Mi piacerebbe andare al mare, a Genova, oppure al cinema, ma la sera dopo il lavoro sono così stanco». Giallo è il suo colore preferito sin da quando era bambino, ma il giallo «è il colore della vergogna», ci dice, «e io non voglio vergognarmi, non voglio avere problemi».

Cecilia
In occasione dello Street Festival, in luglio, torniamo a San Siro ed incontriamo nella stessa piazza Cecilia, giovane attivista che vive nella zona. La sua personale mappa è costituita dall’incrocio delle vie Morgantini e Civitali, dove quasi ogni giorno prende il bus e che ospita molte delle attività commerciali della zona rendendo questo un punto di passaggio e di incontro per moltissime persone dal mattino presto a tarda sera. «C’è il fruttivendolo che sta seduto ogni giorno sul suo sgabello in equilibrio, perché è un po’ grosso; ci sono i ragazzini che ciondolano davanti al tabaccaio, seduti a cavalcioni su delle pseudo panchine; c’è la rosticceria dove sventola la bandiera italiana, la sartoria cinese, il parrucchiere italiano, il panettiere egiziano. È un punto multietnico le cui componenti cambiano durante la giornata, esattamente come cambia tutta la zona».

Esra e gli altri bambini

Nel parchetto incontriamo Esra, ci dice che il suo posto preferito è la scuola dove ha tanti amici, perché i compagni sono belli e bravi e non la spingono. «A spingermi ci pensa solo mio fratello». Il parco giochi è il posto che le piace di più nella piazza e là ci porta dai suoi fratelli che fanno finta di giocare ma in realtà ci aspettano con ansia. Al grido di «jalla jalla» ci troviamo in brevissimo tempo seduti a un tavolo di legno con matite e pennarelli. Esra, Mala, Youssef, Sobi, Seif, Ambra, sono tutti concentrati a disegnare: un giardino, una casa rossa e una blu, la sua e quella dei suoi amici; una bandiera italiana; uno scivolo su cui giocare; una casa con l’erba. Ambra, la più silenziosa ci spiega che ha disegnato una casa con il sole e anche le stelle, perché a lei le stelle piacciono tanto.

Ce ne stiamo andando e incrociamo una ragazza australiana seduta sul marciapiede. È stata invitata da alcuni amici che di lì a poco avrebbero animato un dj set hip-hop in occasione della realizzazione di un murale lungo la grigia facciata dei palazzi di viale Aretusa. È la prima volta che viene qui, è contenta, scambiamo due parole e la lasciamo alla festa.

Ci congediamo da San Siro. Saliamo sul bus mentre i ragazzi hanno cominciato a disegnare sul muro e qui ci domandiamo: ma in fin dei conti dove siamo stati? Ci accorgiamo che il quartiere San Siro non esiste per come lo abbiamo conosciuto sulle mappe prima del nostro arrivo e durante la nostra permanenza. Allo stesso tempo sappiamo che le minime geografie che abbiamo raccolto sotto forma di racconti sono piccolissime parti di un tutto che non ci spaventa, anzi ci incuriosisce.

Le persone che abbiamo incontrato non sono “tipiche” della zona tanto quanto non lo sono jihadisti o “ladri di madonne” e da attenti cartografi quali vorremmo diventare vogliamo costruire una mappa del quartiere che ne comprenda tutte le sfumature. Noi vogliamo tornarci nel “quadrilatero della paura”, perché non è escluso che San Siro sia simile a Molenbeek, come qualcuno ha scritto recentemente, e non è detto che domani non sentiremo dire che qualche nuovo attentatore è nato nei palazzi occupati della zona. Ma che importa tutto questo? Se abbiamo voglia di costruire mappe che siano molto più estese di ciò che possiamo leggere e osservare a distanza allora sì riusciremo a includere anche ciò che disegnare risulta molto difficile come i desideri, le idee, gli slanci.. Che poi sono prima di tutto i nostri!

E perché no, magari riusciremo a trovare delle nuove collocazioni anche alle madonnine di quartiere; ammesso che quella sparita qualche tempo fa da via Abbiati sia stata davvero rapita e non se ne sia andata spontaneamente. Pare infatti che sia stata invitata a pranzo da qualcuno nella zona, si sia innamorata del cous cous e ora gestisca un ristorante in centro.

Il bus ora ci sta portando via con i nostri pensieri, noi siamo stanchi e ci guardiamo complici per la giornata trascorsa. Forse cogliendo i nostri discorsi, una persona seduta davanti a noi si gira e ci ammonisce, «non perdetevi nei deserti dell’Ovest, dove le ultime tracce della mappa dell’impero sono abitate da animali e mendichi». Poi sorride, mentre noi stiamo già dormendo con le facce schiacciate sui finestrini.

«… In quell’impero, l’Arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una Città e la mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una mappa dell’Impero che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo studio della cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all’Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacere rovine della mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suarez Miranda, Viaggi di uomini prudenti, libro quarto, cap. XLV, Lérida, 1658)».
Da Jorge Luis Borges, L’artefice, Ed. Mondadori i Meridiani, vol. 1, pg. 1253.

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