Riprendiamo la città. Stazione Centrale #1

Ogni cultura è interculturale. Fotoracconto di un’esplorazione attorno alla Stazione Centrale

di Elena Maranghi e Marta Meroni
(foto di Marta Meroni)

Esplorazione dell’11 giugno 2016

Oggi incontriamo lo sguardo dell’antropologia. Ivan Bargna – docente all’Università di Milano Bicocca – ci parla di “cultura”.
Che cosa significa questa parola che tanto risuona tra i muri delle nostre città? Rinunciamo già ora a trattare esaustivamente questo tema, così vasto e sfaccettato. Ci basti sapere che “la cultura”, concepita come totalità integrata, è una finzione. La coerenza è costruita nelle rappresentazioni. Da una parte, infatti, una comunità che si pensa come cultura si definisce in relazione a una differenza. L’altro diventa condizione di esistenza del “noi”, in quanto la possibilità di distinguersi si ha solo nella relazione e nel confronto con qualcosa di “diverso”. Dall’altra parte, abbiamo l’occhio dell’osservatore esterno, che accorpa e tiene insieme elementi disparati. Entrambi i processi “inventano” e producono una cultura. Arriviamo ora all’intercultura, la nostra protagonista. L’intercultura è piuttosto una pratica che non si auto-definisce come cultura, ed è per questo difficilmente riconosciuta. Non erige confini, non pretende fissità, esiste come pratica in divenire: per noi è meglio che sia così? Viene quasi voglia di dire: smettiamo di parlarne, lasciamola tacita.

Centralità in stazione
Usciamo al sole di giugno un po’ spaesati. Sì, ce lo eravamo immaginato che ad un certo punto saremmo arrivati qui: l’intercultura, forse, non esiste. È una lente, un artificio, una cristallizzazione di qualcosa che si trasforma continuamente: noi, le nostre identità. E allora, parlarne serve? Ci serve pensare che si possa davvero cristallizzare – in un qualche momento, in una qualche forma – questa pratica? Usciamo in strada con parecchi dilemmi in testa. E non è facile, ora, pensare di buttarci nell’esercizio che ci è stato consegnato, insieme a tutti questi interrogativi. “10 foto che catturino – nello spazio – tracce visibili di appartenenza e identità plurime”, questo è il compito. E solo un’ora e mezza di tempo, per portarlo a termine.
C’è questo grande oggetto, la Stazione Centrale, davanti a noi. È decisamente imponente e tutto intorno e dentro e sotto e sopra, nei suoi tanti livelli, brulica di vita, di attività, di persone. Sono forse meno di quanti possiamo immaginare quelli che sono qui per partire: nella stazione e intorno alla stazione succedono molte altre cose. I binari sono più in alto del livello della strada, per questo il grande edificio bianco è così imponente: ha il compito di tenere insieme la città e tutto quello che, da sempre, arrivando in treno, la alimenta. Per un attimo ci fermiamo nel piazzale davanti alla stazione. Molte persone al solito sono qui semi-accampate e anche noi non facciamo diversamente. Seduti su un muretto basso, riflettiamo.

Allora, dove si va?” Istintivamente condividiamo la voglia di non fermarci lì e pure quella di non entrare nella stazione. Come spesso accade nei nostri sotto-gruppi dall’ascolto gli uni degli altri si rafforza un’idea, uno spunto, che nasce piccolo e via via si alimenta nel dibattito collettivo. Fin dove arriva la stazione? Vediamo cosa succede intorno, invece. È possibile individuare un confine? Quante cose accadono fuori dalla stazione ma perché c’è la stazione?

Marta ha sentito parlare del fatto che in una strada laterale, proprio per la vicinanza della stazione e di un mercato del pesce a cui si accede da alcune arcate che si aprono sotto i binari, sono nati vari ristoranti di pesce. Nessuno di noi ne sa molto, e ci incuriosisce l’idea di questi carichi di pesce che arrivano, da chissà dove, e di un commercio, nato attorno a questi grandi flussi. Ci incamminiamo verso via Sammartini convinti di voler seguire la pista della ricerca di tracce che raccontano flussi economici nascosti… ed è lì che ci viene in mente l’hub, nato per gestire l’emergenza migranti. Michele e Maico si offrono di andare a controllare se esiste ancora e se potrebbe essere un luogo interessante da esplorare – guidati dalla consegna del giorno – mentre noi altre restiamo sulla strada. Ed è così, per caso, che il nostro occhio curioso cade su di un piccolo condominio giallo. Tre piani, la facciata scrostata, ma un fascino un po’ antico, un villino borghese che sembra atterrato lì dal nulla. Attorno un cortile, grandi alberi, un canale una volta pieno d’acqua, ora di rifiuti e cartacce. Il cancello che delimita il cortile è semi-aperto, così decidiamo di affacciarci. Oltrepassiamo incerti la soglia del cancello, consci dell’invasione ma giustificati dalla curiosità…

La casa dei ferrovieri
Siamo entrati. Il cortile è deserto, ma questa vecchia casa ci offre segnali di vita: gli stracci appesi alla finestra o stesi in quell’angolo riparato del cortile, lo sfrigolio e i tintinnii provenienti dal ristorante in fondo sulla sinistra. Aromi intensi e una macchina parcheggiata. È abitato e, appena ce ne convinciamo, il cortile viene attraversato da un uomo che trascina una valigia rossa. Sarà diretto in stazione? Dal lato opposto della strada, le mura della Stazione Centrale. Oggi abbiamo deciso di abbatterle, per ricollocarne i confini. Dove? Non lo sappiamo ancora bene e ci viene il dubbio che la stazione sia un nodo generatore di un così ampio ecosistema che risulta impossibile o comunque inutile tracciarli.
La vecchia casa era inizialmente abitata da ferrovieri, che arrivavano comodamente al lavoro e si assicuravano di non perdere l’orecchio per lo sferragliare. È stata poi affittata a impiegati delle Ferrovie dello Stato che lavoravano negli uffici della stazione. Con il tempo la casa ha perso di valore a causa di varie trascuratezze nella manutenzione e gli affittuari sono cambiati.

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Stratificazioni
La casa oggi è attraversata da flussi migratori diversi da allora. Con la macchina fotografica tra le mani qualcuno di noi esplora gli angoli più reconditi del cortile, al contempo in cerca di forme umane con cui creare un contatto. Lo spazio attorno a noi ci fornisce numerosi elementi visivi che raccontano una stratificazione non solo di funzioni (attività di ristorazione, residenza…), ma anche di storie di vita e di quotidiana pratica “interculturale”, se così vogliamo chiamarla. O di quotidiana pratica di commistione, collaborazione e anche conflitto delle differenze di cui ciascuno di noi è portatore. Alcune più velate, altre evidenti, come le traduzioni in spagnolo di alcuni cartelli che regolano la “buona convivenza nel cortile”, che ci raccontano la storia dei precedenti custodi, boliviani.

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Custodire
Oggi il custode è Muttiah. Compare all’improvviso, maneggiando quel mazzo di chiavi, simbolo evidente del suo ruolo all’interno di quella piccola realtà. Muttiah non è titubante. Ci chiede un paio di volte se siamo della polizia, è curioso di sapere da dove veniamo, ma poi si accontenta di una sommaria definizione del progetto e dei nostri obiettivi. Da qui in poi, Muttiah dischiude il suo mondo davanti a noi, increduli spettatori. Racconta di sé, di quando ventisei anni fa è arrivato in Italia. Attraversando il mondo del lavoro trasversalmente, Muttiah è entrato in contatto con il suo attuale datore di lavoro dapprima come affittuario.

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“Sono padrone perché non sono servo”
“Viene prima la relazione e poi la distinzione”. Questa frase, lasciataci dal professor Bargna, rimane sospesa nella nostra mente durante questa esplorazione. Muttiah ci mostra la porta della sua casa. Per diversi anni è stato in affitto al primo piano, in una casa con altri uomini. Con il tempo si è guadagnato la fiducia del padrone di casa e quando è arrivato il momento di scegliere un nuovo custode, la scelta è ricaduta su di lui. Da lì il trasferimento, dal primo piano al piano terra. Un ingresso indipendente che porta all’appartamento che condivide con la famiglia. Custodisce in lui una storia di appartenenze e rappresentazioni conflittuali, identità che si modificano e adattano a seconda delle dinamiche di interazione con il mondo che lo circonda.

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Sri-Lanka/Italia
“Volete vedere dentro?”. All’improvviso Muttiah ci sorprende. Ha per caso letto nelle nostre menti?

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Muttiah ci apre la porta di un appartamento al primo piano. Camminiamo in fila indiana lasciandoci sulla sinistra uno stretto angolo cottura. Due passi in avanti e ci troviamo nella prima stanza, tre letti a castello e un armadio ne occupano tutto il perimetro, lasciando uno spazio centrale vuoto. Interrompiamo la preghiera di un uomo, che appena ci vede si toglie il copricapo e si mette in disparte. Ci scusiamo per quell’invasione che inizia a farci sentire a disagio. L’accesso è stato così repentino, e condotto da un irruento Muttiah, che non abbiamo avuto modo di realizzare che ci stavamo addentrando in uno spazio vissuto, intimo. Capiamo che ci vuole cautela nell’incontro. La seconda stanza ha altri tre letti a castello e un lettino incastrato sotto la finestra. Completamente coperto dalle coperte, qualcuno dorme. Vorremmo uscire in fretta da quell’appartamento.

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Salutiamo, ringraziamo e ci scusiamo. Seguiamo Muttiah su per altre due rampe di scale. Ci scambiamo degli sguardi, sembra che le barriere fisiche siano state abbattute e questo ci lascia perplessi. E se tornasse il padrone di casa? Muttiah finirebbe nei guai? E noi? Tre mandate ed è aperta. La casa del “padrone”, come lo chiama Muttiah. Rimaniamo sulla soglia e più tardi, in un momento di condivisione di percezioni dell’esperienza, scopriamo di avere avuto tutti la pelle d’oca. Facciamo qualche passo sul parquet di questa mansarda luminosa e curata. Con l’appartamento al piano di sotto non ha niente in comune. La metratura corrisponde probabilmente a quella dei due appartamenti sottostanti, ed è abitata da una sola persona. Lo stato degli interni è curato, riempito con tutte le comodità ed evidentemente oggetto di manutenzione costante.

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Il nostro corpo ci ha impulsivamente suggerito un giudizio. Istantaneamente eravamo sconcertati davanti a una così netta differenza di stile abitativo, diviso da una sola rampa di scale. Ci pareva che il “padrone” dominasse simbolicamente gli affittuari dal suo sottotetto, stipando corpi negli appartamenti sottostanti, negando manutenzioni e dignità. Riportando il caso al gruppo, abbiamo tentato di moderare il nostro giudizio, esplorando le dinamiche più sottili delle relazioni international di quella casa. Ci siamo trovati di fronte a un rapporto univoco di dominio e sottomissione? O potrebbero sussistere livelli di azione e reazione più velati? La nostra concezione di necessità abitative e abitare dignitoso è condivisa?
Muttiah ci ha aiutato a capire che l’evidenza è facilmente accessibile, così come le conclusioni affrettate. Scegliamo il nostro campo di ricerca, esploriamolo con occhio attento, superando l’impulsività delle nostre premesse. Esplicitiamole e andiamo alla ricerca di quegli equilibri che permettono la convivenza delle contraddizioni. Con questa consapevolezza, rimaniamo con la voglia di tornare ad esplorare questo pezzo di mondo, quasi invisibile, ma così denso, proprio dietro alla Stazione Centrale.

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