Riprendiamo la città. Stazione Centrale #2

Ogni cultura è interculturale. Muttiah

di Elena Maranghi e Marta Meroni

Esplorazione del 18 giugno 2016

Quando chiediamo a Muttiah di parlarci di un suo “nuovo inizio” sono passate circa due settimane dal nostro primo incontro. Vogliamo sapere di più della sua storia. «Va bene», ci dice, ma ci dà appuntamento al pomeriggio: ora è occupato con le pulizie dell’appartamento «del capo». Oggi siamo guidati dalla teoria del cambiamento e dei riti di passaggio, secondo cui in ogni storia di vita è identificabile un durante, un momento in cui contemporaneamente non si è più ciò che si era prima e non si è ancora qualcos’altro. Ci si sta trasformando. Decidiamo di strutturare le domande che guideranno la nostra chiacchierata con un ipotetico interlocutore cercando di individuare un prima, il momento della destabilizzazione dell’equilibrio, un durante di attivazione e reazione e un dopo, momento in cui si ristabilisce un nuovo stato di equilibrio.

Come al solito, siamo davanti a una sfida. È difficile raccontare e raccontarsi, ci vuole delicatezza. Per fortuna possiamo sempre contare sull’esperienza che maturiamo sperimentando in gruppo la consegna da portare poi tra le strade di Milano. La sera precedente, in Casetta Verde, Massimo – che ci guida in questo week-end di esplorazioni – ci ha fatto fare una prova: divisi in gruppi di due ci siamo raccontati un nostro nuovo inizio. Abbiamo ascoltato, per esempio, la storia di uno di noi, Youssef, che a 17 anni si è spostato dal Marocco all’Italia. Una storia bella e delicata. Questo ci ha fatto capire quanto sia difficile raccontare di sé: ci vuole confidenza, per lasciarsi andare. Ci vuole cura, nell’accogliere.

Sono quasi le 14, abbiamo due ore davanti e dalle 16 ce ne resterebbe invece soltanto una a disposizione per fare l’intervista e poi tornare “alla base”, alle 17, per condividere i nostri lavori con gli altri. I tempi sono stretti: è la nostra seconda uscita con la camera, dobbiamo rodare le nostre capacità di coordinamento, mettere in conto le difficoltà tecniche, considerare che il nostro interlocutore potrebbe sentirsi inibito da una telecamera… per ottimizzare i tempi, decidiamo di alleviare la tensione con un buon kebab. Mentre addentiamo i nostri panini con falafel o carne, oltre ad organizzare la troupe, assegnare ruoli, discutere sulla struttura del dialogo, ci interroghiamo anche su quello che potrebbe andare storto: se all’ultimo Muttiah decidesse di non presentarsi? Ci siamo incontrati una volta sola, d’altra parte. E noi non siamo neppure riusciti a fargli capire bene chi siamo, cosa facciamo. Si è accontentato di capire che non abbiamo nulla a che fare con la polizia («Non siete borghesi, vero?»), e che neppure siamo giornalisti, anche se questo sembrava preoccuparlo meno. Valutiamo rapidamente. Decidiamo di rischiare. E decidiamo di dare fiducia a Muttiah: crediamo tutti che non si sottrarrà al nostro incontro.

foto1. Le troupe si preparano per la videointervista. Raccontaci un tuo nuovo inizio...
Una goccia di lacrima

Così Muttiah descrive il suo paese, lo Sri Lanka. Sebbene lo dica quasi con un tocco di disprezzo, o di modestia, la poesia che esce da queste parole porta alla luce il suo amore per il paese di origine. Siamo seduti nel cortile, di fronte a casa sua, una sorta di piccola dependance ad un piano nell’angusto cortile ombreggiato (ma d’inverno forse semplicemente buio) dove affaccia anche l’ingresso del palazzo visitato la volta precedente e il retro di un ristorante cinese. Sistemare la camera con questo buio non è stato facile e in più c’è un forte ronzio di fondo che viene dai frigoriferi del ristorante, che rischia di compromettere l’audio. Ma bisogna girare, ormai. Stiamo stipati a poca distanza, noi cinque. Elena, accanto alla camera, fa le domande. Maico prende l’audio seduto stretto vicino a lei. Marta, con il sostegno di Alberto, è dietro la camera. L’altra Elena, in disparte, cattura momenti salienti e riflessioni nel suo quaderno. Ci serve stare vicini: c’è il rischio che Muttiah guardi altrove, altrimenti, e non in camera. Dietro di lui, i giochi dei suoi figli, un albero di natale sintetico: l’inquadratura ci convince perché ci sembra parlare di lui, in qualche modo. Alla fine è stato puntuale. Alle 16 ci aspettava, con birre e succhi di mango appoggiati sul tavolino davanti alla sua porta di casa.

foto 2. Un angolo del cortile di Muttiah.

«Una goccia di lacrima», lo Sri Lanka. Il nuovo inizio di Muttiah è il cambiamento nella sua percezione dei bianchi, come li definisce lui: noi, gli italiani. Quando è arrivato qui, ventisei anni fa, dopo alcuni anni passati come marinaio di cargo in giro per il mondo, Muttiah pensava che i bianchi fossero come gli antichi romani. Sanguinari, conquistatori, violenti. Appassionato di storia, ci racconta di un colono portoghese, il cui nome è tristemente noto in Sri Lanka per la violenza esercitata nei confronti della popolazione locale. Ma con sua sorpresa Muttiah, che a suo dire è arrivato in Italia anch’egli come uomo violento e pieno di risentimento, ha scoperto una cosa: «sopra quella linea che divide a metà il mondo (l’equatore n.d.r.) voi siete diversi, voi cambiate. Noi dopo quella riga preferiamo rimanere in passato tradizionale, invece voi andate avanti».

Da qui in poi, c’è una tensione continua nelle sue parole e nei suoi sentimenti. Da un lato emerge una sorta di ammirazione per l’Italia, paese che Muttiah percepisce come “più giusto” (anche se – dirà – che gli italiani sono è «un po’ furbi, però simpatici»). Di cui stima la capacità di cambiare. Dall’altro lato emerge invece una nostalgia intensa insieme ad una disapprovazione forte verso un cambiamento eccessivo. «Secondo me voi siete andati troppo avanti». Dentro Muttiah il mondo di prima – lo Sri Lanka – e quello di adesso – l’Italia – collidono. Non sapremmo dire se si mescolano. Di sicuro si scontrano, si sovrappongono. Muttiah parla dell’Italia come un paese sicuro, libero, che va avanti. Dove si può cambiare idea e risolvere i conflitti discutendo («in Sri Lanka noi siamo buddisti, non facciamo male a nessuno, ma odiamo»). Dove se fai un lavoro umile puoi essere comunque rispettato, come persona, come uomo. Ma al tempo stesso la vita qui è complicata, si sta stipati negli appartamenti «come polli», non c’è rispetto e amore per gli anziani. Manca un altro tipo di libertà.

La libertà del «saper camminare scalzi», di averlo imparato perché ogni casa, lì, «ha un giardino». Ricorda, Muttiah, dello spazio aperto, tanto, dove portava al pascolo le mucche del nonno, dopo la scuola, da piccolo. «Ho visto vecchi film vostri, c’era prima quella libertà». Una stessa parola, “libertà”, prende forme diverse, a seconda del contesto a cui la riferisce. Le sue emozioni appaiono vivide, attraverso le parole, le confessioni che forse non ha mai fatto a nessuno, su cui forse nessuno lo ha mai interrogato. Non nasconde le contraddizioni che popolano il suo racconto, Muttiah, ma anzi, ce le offre con una sincerità disarmante: lui stesso, ci racconta, è «rimasto indietro», attaccato alle tradizioni, nonostante sia un aspetto che lo spinge a parlare dei suoi compaesani con una certa dose di critica. Anche lui fatica a staccarsi dalle “tradizioni”, dalla terra di origine: «compreso io», dice, quando ci parla della scelta di mandare i suoi figli piccoli a fare le scuole in Sri Lanka. «Ho avuto paura che altrimenti non sarebbero mai più tornati in Sri Lanka, se andavano a scuola qui». È un discorso legato alle tradizioni, ai valori, ma non solo: soprattutto alla paura di perdere i propri figli, di non poterli riportare un giorno in Sri Lanka e di non essere capace di comunicare, con dei bambini italiani. Il dilemma di un padre, di un uomo, tra due mondi: che non vuole essere completamente italiano (critica i sudamericani, che a suo dire hanno preso tutto dagli spagnoli, trasformandosi e perdendosi) ma che quando torna in Sri Lanka si sente «quarant’anni avanti». «Adesso dopo 26 anni non posso ragionare con loro».

Sballottati noi stessi tra i due mondi, attraverso le sue parole, lo lasciamo scivolare tra questi due poli. Forse, con un incredibile fortuna, ci stiamo addentrando proprio in quella terra di mezzo che, nella fase di preparazione delle domande, abbiamo deciso di voler esplorare: cosa succede tra un prima e un dopo? Se c’è un nuovo inizio, infatti, c’è un durante, una fase in cui mi trasformo, cambio. Noi l’intercultura ce la immaginiamo lì forse, un essere “in mezzo”, un processo, non tanto un esito o un risultato. E forse ce la immaginiamo anche così: non una superficie piana, ma rugosa, piena di dubbi, di incertezze, di contraddizioni.

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1.