Teoria del cambiamento in un kebab di Stazione Centrale
di Tommaso Santagostino
Esplorazione del 18 giugno 2016
Raccontaci un tuo nuovo inizio. Questo invito ci guiderà oggi per le strade intorno alla Stazione Centrale, con la consueta eccitazione e paura che ci accompagnano quando abbandoniamo le sicurezze del nostro laboratorio per uscire fuori, alla ribalta della città, in cerca di qualcuno che ci dedichi del tempo per raccontarsi. A noi piacciono le storie di vita e oggi in particolare vorremmo che qualcuno ci raccontasse un suo “nuovo inizio”: un momento della vita in cui ciò che siamo si modifica, non esiste più, e tutto si apre a nuove cose. Non sempre il dopo è migliore del prima e anzi talvolta un evento improvviso o una decisione presa da qualcun altro possono sconvolgere un’esistenza fino ad estreme conseguenze.
Ma non stiamo cercando notizie sensazionali o drammi, noi stiamo cercando di raccontare l’intercultura in una grande città come Milano e il valore delle storie che incontriamo è altissimo, perché in ciascuna delle persone che le ha vissute risiede una pluralità di esperienze che ci consente di trattare l’intercultura come qualcosa che non esiste di per sé e che si dissolve man mano che ci avviciniamo a loro. Per questo anche storie minime sono fondamentali, quando rendono più ampie le nostre prospettive, dettaglio dopo dettaglio. Noi crediamo fermamente che ognuno abbia qualcosa da raccontare, ma allo stesso tempo sappiamo bene che ogni racconto è un regalo molto prezioso, che si ottiene con il tempo, la reciprocità e la pazienza necessari per instaurare un rapporto. Non sempre però le circostanze sono ideali ed è impossibile non accelerare i tempi e forzare le situazioni.
Mentre altri si apprestano ad incontrare Muttiah, a poche centinaia di metri di distanza, la nostra esplorazione ci porta, carichi di aspettative, sulla soglia di un kebabbaro vicino al via vai di piazza IV Novembre. Qui ci troviamo a negoziare la possibilità non solo di fare due chiacchiere con Mourad, il gestore del locale, ma anche di filmarlo con la nostra inseparabile videocamera professionale. Alcuni di noi conoscono già Mourad perché, lavorando in zona, di tanto in tanto pranzano da lui e ciò rende l’innesco della relazione molto positivo e semplice. Mourad contribuisce a quietare le nostre ansie da prestazione e ci invita ad entrare, si dice disponibile a stare un po’ con noi nel corso del pomeriggio. Data l’ora, approfittiamo per mangiare qualcosa prima di fare due chiacchiere con lui. E così, come molte altre volte è capitato a tutti noi, ci troviamo di fronte ad alcuni classici dilemmi che accompagnano la scelta del kebab: siamo invitati rapidamente a prendere una posizione chiara e ferma sul tipo di contenitore (panino o piadina?), sul contenuto (con o senza cipolla?) e sul condimento da accompagnare a questo rituale da fast food cittadino (salsa piccante?).
Nel tempo di preparazione del cibo decidiamo di preparare l’attrezzatura e piazzare la videocamera per filmare il contesto e i dettagli di quello che poi diventerà il set della ripresa vera e propria. Dopo aver pattuito, con il “nostro uomo”, la possibilità di riprendere anche lui, successivamente. Mourad è egiziano, ha una quarantina d’anni ed è copto, come molti altri gestori di locali simili a Milano. Ci tiene a prepare personalmente i nostri piatti, mentre un suo aiutante sta stendendo gli impasti delle pizze che altri clienti hanno scelto. Sono situazioni che abbiamo sperimentato molte volte, ma la presenza della videocamera, che nel frattempo abbiamo piazzato sul cavalletto e che abbiamo azionato, ci condiziona. Seguire il ritmo sicuro e preciso di Mourad e del pizzaiolo, che si incrociano nello stretto passaggio del bancone senza mai ostacolarsi; inquadrare le loro mani attraverso la teca trasparente su cui poggiano gli ingredienti e che consente di osservare la loro opera di composizione; sono tutti gesti a cui siamo abituati, ma che sembrano vivificati attraverso l’obiettivo della videocamera. È come se li osservassimo per la prima volta.
Si può immaginare che la presenza della videocamera sia un deterrente al creare e sviluppare la relazione, perché determina la percezione che tutto ciò che viene ripreso debba essere in qualche modo “sensazionale” e chi non si sente a proprio agio si preclude qualsiasi possibilità di essere ripreso; oppure può capitare che le persone guardino con diffidenza al fatto di essere “registrati”, consapevoli che il prodotto di ciò che viene girato non è più sotto il loro controllo e potrebbe essere usato impropriamente. In questi mesi di esplorazioni videocamera alla mano, ci siamo resi conto, tuttavia, che essa rappresenta allo stesso tempo un efficace mezzo di legittimazione che aiuta il riconoscimento di una qualche “ufficialità” del lavoro svolto. Nel nostro caso, infatti, la videocamera si rivelerà l’ultimo dei problemi, e viene accettata sin da subito nel locale.
È tempo di Mondiali di calcio e la cronaca di qualche partita, alla televisione, quasi appesa al soffitto del locale, fa da sottofondo alle nostre operazioni. Mourad ci prepara il tavolo nella saletta interna e ci informa che a breve arriveranno anche la moglie e i suoi tre bambini. Il posto è accogliente, la videocamera è accesa e tutti all’interno del locale sembrano reagire con serenità alla nostra presenza. Abbiamo rotto il ghiaccio, possiamo dunque rilassarci e mangiare. Siamo in sei attorno al nostro tavolo e tra una chiacchiera e l’altra emerge la solita inquietudine: ora che abbiamo “innescato” la situazione, cosa succederà? Saremo in grado di far capire a Mourad ciò che vorremmo lui ci raccontasse e, soprattutto, lui ne avrà voglia? La possibilità di fallire in questi casi è molto elevata e mantenere lucidità sui propri obiettivi è fondamentale, perciò è bene dimenticarsi per un momento del prodotto finale e fare un passo alla volta.
Finito il nostro pranzo, Mourad ci raggiunge al tavolo per sedersi insieme a noi. Finalmente iniziamo a parlare. Siamo fortunati, perché l’arrivo di Mariam e figli consente a Mourad di poter fare una pausa senza lasciare “scoperto” il suo lavoro e parlare tranquillamente con noi. Il racconto attraversa le piccole e grandi difficoltà quotidiane, la sua esperienza di emigrazione dall’Egitto, il rapporto con la famiglia d’origine, i problemi legati all’attività lavorativa. C’è però, in particolare, un momento che lo ha fatto stare davvero in pena, che gli ha tolto il sonno e lo ha fatto sentire come un pesce fuor d’acqua: il periodo subito dopo essersi sposato, quando lui e Mariam desideravano con tutti loro stessi di avere il primo figlio e per lunghi mesi questo non è mai arrivato.
Mourad si ferma, non riesce a dirci di più, perché nel frattempo Mariam lo ha interrotto. È arrivato un cliente e c’è bisogno di lui. Per noi è difficile comprendere la situazione, ma ci sembra chiaro che sia un pretesto e che si stia generando tensione fra i due. Mariam non sembra contenta e Mourad, dopo aver discusso con lei, rimane fermo, impietrito, senza considerarci più. Siamo in un vicolo cieco, non possiamo certo insistere. I due parlano ancora nella loro lingua, mentre noi attendiamo che qualcosa accada, ormai relegati ad aspettare nella saletta interna. Alcuni di noi si occupano di regolare la videocamera e abbandonano il tavolo perché se Mourad tornasse, pensiamo, probabilmente apprezzerebbe di sentirsi meno “occhi addosso”.
A dire il vero non sembra avere intenzione di proseguire il racconto, è fermo dietro al bancone: un bellissimo ritratto, gli occhi che guardano un indefinito davanti a sé. Chissà cosa sta pensando.
Mariam nel frattempo si è seduta con i tre figli che giocano tra loro e sorridono verso la telecamera, sempre “piazzata” e pronta per registrare. Noi non possiamo far altro che scusarci e ringraziare tutti loro per averci accolto e per aver condiviso il racconto della propria esperienza.
Siamo pronti a tirare su tutte le nostre cose e andare via quando Mourad e Mariam guardano uno dei loro figli, la bambina di otto anni, e ci dicono con entusiasmo e grandi sorrisi «È lei, la nostra meraviglia! Camelia, il nostro miracolo. L’unica meraviglia di tutta la vita». Come per magia siamo tutti più distesi, la tensione è già lontana e Mourad si dice pronto per raccontarsi davanti alla videocamera, mentre Mariam timidamente ci comunica che preferisce restare fuori dall’inquadratura. «Per alcuni mesi non abbiamo avuto rapporti sessuali, poi abbiamo avuto grandi difficoltà, eravamo preoccupati soprattutto perché i nostri genitori volevano vedere i figli dei loro figli. Eravamo già in Italia, lontano dalla famiglia, ma per fortuna nell’agosto 2008 è nata la nostra meraviglia, Camelia. È la fortuna che l’ha fatta arrivare». Mourad sorride indicando il cielo e Mariam sorride a sua volta, partecipando ai racconti del marito. Invitiamo anche lei a entrare nel campo della videocamera.
Mariam vince la timidezza e ora entrambi sono davanti l’obiettivo. Chiediamo loro che cosa hanno fatto prima che la bambina nascesse, quando, nonostante i tentativi, non arrivava. Ci risponde Mourad, emozionatissimo: «Io lavoravo, lei faceva visite, ha visto tanti dottori, parlato con amici e amiche, parenti… abbiamo ascoltato tante persone. Ma con quello che arriva da lassù non è possibile far nulla: Camelia è arrivata quando doveva arrivare».
«E quando è nata cosa avete fatto?», chiediamo: «Qui non funziona come in Egitto, dove tutta la famiglia è riunita. Eravamo noi da soli, certo abbiamo fatto una bella festa, ma di là è diverso, di là è come un matrimonio: i nonni, le mamme, tutta la famiglia deve stare con la figlia che ha partorito. In Egitto si mangia tutti insieme, figuriamoci che qui in Italia in ospedale quasi non ti danno nemmeno il cibo! Devo anche dire che in Egitto si cerca il maschio e anche io lo volevo, perché chi ha il figlio maschio non muore più, perché il maschio tiene il nome del padre, mentre la femmina prende il nome del marito. Ma questo ora non c’entra, il maschio lo abbiamo avuto e Camelia rimane la nostra meraviglia!»
Saranno quattro ore che siamo qui, siamo stanchi, felici, dilatati. Non solo ci è sembrato tutto più vivido attraverso la telecamera, ma ora siamo noi stessi a percepire il tempo passato qui come una bella storia. Piccola se vogliamo, ma significativa, perché, appunto, non è solo la storia di una vita, di moglie e marito, prima, e genitori, poi, lontani dal proprio paese di nascita. Noi e loro, insieme, abbiamo fatto uno sforzo per incontrarci dilatando i tempi della nostra presenza e allo stesso tempo valorizzando le molteplici sfumature emotive che il ristorante fast food stava assumendo, come luogo dell’incontro prima, della tensione e fatica durante il racconto e, infine, della condivisione emotiva e soddisfazione, dopo.
Abbiamo giocato tutti le nostre carte migliori. Siamo arrivati con la nostra piccola “teoria del cambiamento”, per stimolare una persona a narrare una trasformazione del sé, e ne usciamo con la coscienza di aver costruito insieme a Mourad e Mariam uno spazio collettivo che prima di ogni altra cosa potrebbe essere descritto come uno spazio di amicizia, fondato sullo scambio equo dei tanti noi.