Alleanze ingovernabili. Contro lo stato di emergenza e il potere neocoloniale. Note a partire dalla rivolta “Pour Théo”
di Cosimo Lisi
Il 2 Febbraio scorso, ad Aulnays-sous-Bois (Île-de-France), Théo Luhaka veniva violentato con un manganello nel corso di un controllo di polizia. Lo stupro di Théo segue all’omicidio di Adama Traoré, ragazzo di origini maliane, ucciso il 19 luglio 2016 nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno a Beaumont-sur-Oise, nel corso di un controllo d’identità. Questi eventi, assieme alla recente uccisione di Liu Shaoyo, commerciante cinese di 56 anni, colpito il 25 marzo nel 19e arrondissement di Parigi, davanti alle figlie, da alcuni agenti di polizia in civile, sono indice dell’intensità raggiunta dalla declinazione poliziesca della governamentalità neoliberale che vige sull’Esagono (circa quindici morti ogni anno provocate dagli interventi della polizia secondo quanto riportato dal collettivo Urgence Notre Police Assasine).
Le rivolte scoppiate nei giorni successivi lo stupro di Théo, che hanno attraversato le strade dell’Ile de France fino alla marcia del 19 marzo, danno prova del livello di autorganizzazione politica dei territori della “seconda Francia”, quella abitata dai soggetti postcoloniali e racisés (le cosiddette “seconde e terze generazioni”) che il discorso mediatico dominante e le dichiarazioni politiche ufficiali rappresentano da decenni come estranea al corpo della nazione, terra dei “nemici dell’interno”. Le varie forme di mobilitazioni e di émeute degli ultimi due mesi sono inoltre il segnale, ancora abbozzato, della realizzazione della grande paura espressa dall’ex presidente Nicolas Sarkozy nel 2006: quella della saldatura tra le rivolte dei giovani delle banlieue e le lotte dei giovani studenti e precari, la generazione che ha espresso la sua potenza e radicalità durante il movimento contro la “loi travail et son monde” l’anno scorso.
Ho partecipato in prima persona alle mobilitazioni. Le mie riflessioni intrecciano quelle di un insieme di compagni e ricercatori, conosciuti tra le strade di Parigi nel movimento dell’anno scorso.
Genealogia di un dispositivo neocoloniale
Di fronte alle torture, agli omicidi, alla violazione continua dello stato di diritto in una delle democrazie più antiche d’Europa, si potrebbe, di primo acchito restare attoniti. Tuttavia, come ha mostrato a più riprese Mathieu Rigouste -sociologo e militante- le violenze poliziesche non sono eccessi, “bavures” (come sostengono i media dominanti e le organizzazioni antirazziste ufficiali), che fuoriuscirebbero dal solco dell’istituzione della polizia repubblicana, ma ne costituiscono un elemento strutturale: «non si tratta né di errori, né di difetti di fabbricazione, né di danni collaterali. Tutti questi elementi sono al contrario le conseguenze di meccaniche istituite, di procedure legali, di metodi e di dottrine insegnati e inquadrati da scuole e amministrazioni. Anche le morti provocate dalla polizia sono in gran parte l’applicazione d’idee e di pratiche promosse da differenti livelli della gerarchia poliziesca e politica. La parola “polizia” da sola costringe ogni volta che è pronunciata e tramite la sua sola esistenza. Tutta la polizia è violenza fino nei suoi sguardi e nei suoi silenzi» (M. Rigouste, “La domination policière. Une violence industrielle”, La Fabrique, Paris, 2012).
La centralità della violenza poliziesca nel controllo dei poveri e della popolazione eccedente rappresenta un elemento comune nel governo delle società neoliberali, ma in Francia ha una sua specificità legata al passato coloniale.
A partire dagli anni ’80 infatti, viene riabilitata la nozione di “nemico interno” utilizzata durante le guerre coloniali degli anni ’50, e ritornano in auge, nelle scuole di polizia, tecniche e principi presenti all’interno della Dottrina della Guerra Rivoluzionaria (DGR), teorizzata dai generali della IV Repubblica, che diressero le azioni nelle guerre d’Indocina e d’Algeria, per giustificare la brutalità della repressione: «la DGR implica teoricamente la messa in opera di un quadrillage poliziesco militare intensivo del territorio. Fondata sull’idea che, difronte a un avversario che non esiterebbe a impiegare il terrore per prendere il controllo della popolazione, sarebbe necessario rovesciare l’impiego di queste pratiche, l’applicazione di questa dottrina ha permesso allora in particolare, la massificazione della tortura, delle esecuzioni sommarie, e delle sparizioni» (M. Rigouste, “L’ennemie intérieur. La généalogie coloniale et militaire de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine”, La Découverte, Paris, 2011).
Questa dottrina fu concepita nello specifico in Algeria, dove i colonizzati non erano considerati come cittadini e tra una gestione militare della società.
Formalmente cancellati dai programmi delle scuole militari, dopo l’epurazione degli ufficiali dell’OAS dall’esercito e il cambio strategico avvenuto con l’instaurazione della V Repubblica nel 1958, le tecniche contro-insurrezionali della DGR riappaiono in tutt’altro contesto, a cavallo tra gli anni’70 e ’80, nel quadro della trasformazione neoliberale della società francese. È in questo periodo, contemporaneamente con il dispiegarsi del processo di deindustrializzazione, dell’aumento della disoccupazione, del depotenziamento dello stato sociale e del rafforzamento dello stato penale, che nei discorsi pubblici comincia a profilarsi il problema delle “banlieue”. Rigouste parla a proposito di pratiche di segregazione “sociopoliziesca” o “endocoloniale” e introduce il concetto di “socioapartheid”.
Questo sistema si fonda, a suo avviso, sulla designazione di “zone sensibili”, “pericolose”, che necessitano di un trattamento specifico in materia di gestione dell’ordine. Le popolazioni che vi risiedono, che egli qualifica come “dannati dell’interno”, sono considerate come degli “indigeni” dalle istituzioni pubbliche, dai media e dalla polizia. Nell’ agglomerazione urbana parigina questa separazione è visibile simbolicamente. Il boulevard périphérique che si sotterra e si fa modesto ad ovest, quasi a voler sottolineare l’indistinzione tra i beaux quartier e le ricche ville dei comuni occidentali, si erge imponente a nord ed a est, rimarcando la separazione tra Parigi e igrands ensemble delle banlieues-dormitorio. Questi territori sono legati nell’immaginario contemporaneo al nuovo nome collettivo con il quale la stampa ufficiale, con Sarkozy in testa, indicarono i giovani che bruciarono la Francia in seguito all’omicidio di Zyed e Bouna, i due ragazzi di 15 e 17 anni morti nel 2005, bruciati vivi mentre si arrampicavano su un palo di una centrale elettrica scappando dalla polizia: racaille.
Lungi dall’essere il residuo marginale di un sottoproletariato in via di sparizione, la racaille è l’estremo prodotto dell’alienazione urbana, tanto da divenire paradigma di una situazione sociale in costante aumento. Al contrario dei blousons noirs degli anni’60, figli degli operai della grande fabbrica fordista interna alla città, questi nuovi soggetti urbani non hanno alcun senso di appartenenza nei confronti del loro quartiere e del loro spazio di vita. Prodotto della dislocazione e dell’esclusione sociale, «i racailleux vivono il proprio quartiere come i detenuti la propria cella» (Alessi Dell’Umbria, “La rage et la révolte”, Agone, Marseille, 2010).
L’atto di nascita delle HLM è la legge Sigrified del 1895 che facilita l’accesso degli operai alla casa individuale nel tentativo di sopprimere tutte le forme di promiscuità e di socialità operaia. «Un operaio proprietario diviene economo, previdente, definitivamente guarito dalle utopie socialiste» scrive Jules Sigrified, promulgatore della legge e fondatore insieme a George Picot della “Societé française des habitations à bon marché”, sostenitore convinto della costruzione delle città operaie per mantenere l’ordine e la moralità e impedire ogni tipo di solidarietà di classe. Queste tecniche urbane di controllo dell’insubordinazione della forza lavoro completavano il processo iniziato con l’embellissement stratégique da Haussmann.
Con le HLM veniva messo in atto il dispositivo urbano della società disciplinare che «aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce quelle stesse forze (in termini politici di obbedienza)» (M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976). Così si preservava Parigi dalla guerra civile che era stata la costante del XIX secolo. Le HLM facevano proprio il paradigma carcerario della società disciplinare a tal punto da venir utilizzate a loro volta come delle prigioni. La Cité La Muette era un campo di concentramento sotto l’occupazione nazista, prima di essere riconvertita a HLM nel 1950 (il campo è ricordato come Champ de Drancy, dal nome del comune nel quale sorge la Cité, cfr. A. Wieviorka, M. Laffitte, “À l’intérieur du camp de Drancy”, Perrin, coll. Synthèses historiques, Paris, 2012).
Tuttavia, le città costruite per il riposo dell’operaio salariato fordista dotato di automobile (essendo ogni altra forma di vita rigorosamente giudicata impossibile) entrano in crisi alla fine degli anni ’70 con la fine del fordismo. La disoccupazione di massa seguita alla deindustrializzazione ridisegna la geografia delle banlieue e richiede un cambiamento del paradigma di potere dominante. Se il lavoro di fabbrica e l’azione del sindacato integravano l’operaio fordista all’interno della comunità nazionale del welfare state, i sempre meno numerosi sussidi di disoccupazione possono solamente controllare una situazione che è sempre sul punto di esplodere.
È in questo contesto che si assiste ad una riformulazione del modello securitario: il nemico non coincide più con lo spettro sovietico che avrebbe, secondo lo stato maggiore dell’esercito, fomentato le lotte di decolonizzazione degli anni ’50, ma con una “nebulosa di minacce”, di cui gli ex colonizzati che vivono nella periferia della metropoli rappresentano un elemento fondamentale. Anche se formalmente in possesso della cittadinanza francese, questi soggetti vengono considerati estranei ai valori della Repubblica e definiti seconde generazioni (al contrario di quanto avvenuto nei confronti dei figli degli immigrati europei), reintroducendo in questo modo la categoria di “razza” al centro della divisione simbolica tra veri e falsi francesi.
Per far fronte a queste nuove minacce, viene innescato un processo d’ibridazione tra tecniche poliziesche e militari, che si traduce nella creazione di unità speciali di polizia, le quali riadattano i metodi contro-insurrezionali della DGR all’interno del nuovo contesto. Fra le nuove unità speciali, la BAC (Brigade Anti Criminalité) è senza dubbio l’organo più predisposto a conservare la segregazione razzista e contenere l’indisciplina dei quartieri popolari. Suddivisa in gruppi formati da quattro o cinque persone che pattugliano i quartieri cosiddetti “criminogeni” (considerati vere e proprie riserve di caccia) per catturare sospetti, la BAC è «un’unità d’intervento particolarmente aggressiva, fondata sulla molestia e la provocazione (…), riconosciuta dalle amministrazioni pubbliche (…) come una forma di polizia particolarmente efficace, redditizia, performante e produttiva» (M. Rigouste, “La domination policière. Une violence industrielle”, cit.) . È infatti la logica neoliberale della redditività massima e dell’efficienza produttiva che informa il modo operativo della BAC, giudicata un’unità dotata di un modo di azione “proattivo”. L’aggettivo, utilizzato dal neo-management degli anni ’70, designa la capacità di un attore economico di generare i mercati da cui si nutre. Dunque, un unità di polizia proattiva crea le minacce che essa dovrebbe ridurre, suscitando, provocando, fabbricando dei disordini per meglio controllarli. La BAC assume quindi sempre più l’aspetto di una polizia dello choc, che applica all’insieme della popolazione, metodi riservati in precedenza ai casi d’eccezione.
Questo processo diventa ancora più evidente dopo l’istituzionalizzazione dello stato d’emergenza, a seguito degli attentati del 2015. La legge che autorizza la sospensione delle “libertà democratiche” per conferire poteri “straordinari” alla gestione della sicurezza pubblica, è stata approvata nel 1955 durante la guerra coloniale in Algeria. Applicata nel 1984 in Nuova Caledonia e nelle “rivolte delle banlieue” nel 2005, lo stato di emergenza affonda le sue radici nella guerra coloniale e postcoloniale, e rappresenta il quadro istituzionale più adatto per il governo dell’eccedenza e lo sviluppo del progetto neoliberale in un contesto di crisi. Esteso per la prima volta all’intero territorio nazionale nel 2015 ed ancora in vigore, lo stato d’emergenza si è tradotto in un aumento dei controlli su basi etniche (“aux faciès”), nella diffusione massiccia delle violenze poliziesche, degli arresti preventivi e delle perquisizioni senza mandato giudiziario, e nella forte repressione dei movimenti sociali (più di duemila militanti arrestati in un anno).
Pas de justice, pas de paix!
È in questo contesto che il 2 Febbraio avviene lo stupro di Thèo. Il video girato da una telecamera di sicurezza, viene diffuso in tutti i social network e suscita immediatamente una reazione di rabbia collettiva. Si riapre subito lo spazio per un movimento di critica dello stato d’emergenza e delle violenze poliziesche, che aveva già espresso una forte radicalità durante le mobilitazioni contro la loi travail l’anno scorso, arrivando a rompere, in molti strati della popolazione, il dispositivo securitario d’identificazione con le forze dell’ordine che era stato innescato subito dopo gli attentati del 2015. Il 3 febbraio scoppiano i primi incendi in molti comuni della banlieue nord ed est di Parigi e vengono attaccati alcuni commissariati di polizia locali.
A nulla serve l’appello alla calma di Hollande, che l’8 febbraio si fa fotografare in ospedale accanto a Théo, promettendo che la giustizia farà il suo corso, mentre nello stesso momento il tribunale interno della polizia derubrica le accuse nei confronti dei poliziotti a semplici “percosse”. A partire dal 2 febbraio si diffondono mobilitazioni di ogni tipo, dentro e fuori il boulevard périférique. Per la prima volta, in misura decisa, si rompe la barriera simbolica che oppone “veri” e “falsi” francesi, “buoni” e “cattivi” migranti, “casseurs” e “manifestanti pacifici”.
La “generazione ingovernabile”, che ha attraversato il cortège de tête l’anno scorso, si riunisce il 4 febbraio a Ménilmontant rispondendo all’eco delle rivolte scoppiate il giorno prima in banlieue. La manif sauvage che riprende le vie del centro, riafferma il “no” deciso che si era espresso nella critica materiale dello stato d’emergenza nel 2016. La forte repressione subita dal movimento contro la riforma del lavoro rivela ormai la gestione poliziesca della società come modalità fondamentale di governo neoliberale durante la crisi, ma rappresenta anche l’occasione per un’alleanza tra settori della popolazione francese divisi dai dispositivi simbolici dominanti. Questo incontro è avvenuto in primo luogo durante la manifestazione organizzata il 10 febbraio a Les Halles (tradizionale luogo di convergenza degli abitanti delle banlieue, grazie alla confluenza della rete ferroviaria sub-urbana RER), che si è tradotta nel blocco economico del secondo centro commerciale più grande d’Europa. Nonostante i lacrimogeni sparati ad altezza uomo nelle vie del centro commerciale, molti adolescenti delle banlieue hanno sfidato l’arroganza della polizia, reclamando ad alta voce “giustizia e verità” per Théo.
Ma è soprattutto il 12 febbraio, in occasione di un presidio organizzato davanti al tribunale di Bobigny, dove era prevista un’udienza per gli arrestati durante la prima notte di scontri, che questo incontro assume una potenza considerevole. Circa 5000 persone, di cui la maggior parte provenienti dalla banlieue circostante, affermano la loro indisponibilità ad accettare lo stato di terrore con cui la polizia repubblicana governa i quartieri popolari. Diversi collettivi locali, come la Brigade anti-négrofobie, denunciano la natura coloniale dello stato francese e gruppi di ragazzi attaccano gli agenti in antisommossa che avevano militarizzato la zona, dando inizio a diverse ore di scontri.
Nei giorni successivi salta inoltre definitivamente l’egemonia delle associazioni dell’antirazzismo istituzionale (in particolar modo SOS Racisme), con cui il Partito Socialista aveva cercato negli anni ’80 di innescare un movimento di dissociazione simbolica tra “integrati/integrabili” da una parte e “non integrati/non integrabili” dall’altra, riprendendo alcuni principi concepiti nelle dottrine d’azione psicologica della DGR. Come sottolinea Rigouste, «La creazione nel 1984 di SOS Racisme (su iniziativa di militanti legati al PS) rientrò precisamente nell’ambito di un’impresa volta ad assicurarsi il controllo dell’impegno politico dei discendenti dei colonizzati, spingendo nuovi quadri incaricati di promuovere l’affiliazione della “seconda generazione” alla sinistra (…) si tratta di dissociare simbolicamente la popolazione esogena e potenzialmente ostile tra affiliati e relegati, tra buoni e cattivi, pericolosi e inoffensivi. SOS Racisme è quindi una struttura apparentemente indipendente, il cui compito è quello di assicurare il controllo della critica antirazzista, l’isolamento e il disarmo stesso della contestazione attraverso la sua riduzione alla dissociazione immaginaria tra amici e nemici dell’ordine repubblicano» (M. Rigouste, “L’ennemi intérieur. La généalogie coloniale et militaire de l’ordre sécuritaire dans la France contemporaine”).
Il 18 febbraio al grido di “SOS colabo!” i collettivi autonomi delle banlieue conquistano il palco montato a Place de la République, scontrandosi contro il servizio d’ordine di SOS Racisme, che aveva organizzato un manifestazione di denuncia delle violenze poliziesche ma riproponendo la vecchia distinzione tra le «mele marce» e la sana polizia repubblicana.
Questi due mesi hanno visto inoltre l’emergere di nuovi collettivi di quartiere, nei quali l’incontro tra militanti bianchi e racisés si è tradotto nella forma dell’autorganizzazione. Tra questi è da ricordare il collettivo di Place de Fêtes, a cui partecipo, nato da alcuni militanti che avevano organizzato una Nuit Débout locale l’anno scorso. Situato in uno dei pochi quartieri popolari intra muros, il collettivo da diversi mesi è impegnato in progetti di facilitazione all’accesso allo stato sociale e organizza momenti di riappropriazione dello spazio (pranzi popolari, proiezioni autogestite in piazza, mercato “gratuito”). Durante il movimento “pour Théo” la comunità che si è raccolta attorno al collettivo si è mobilitata attivamente, partecipando a diverse assemblee e organizzando una manif sauvage che, partita dalla piazza, è arrivata in centro senza la polizia, percorrendo determinata, i vicoli del 19e e del 20e arrondissement.
Le mobilitazioni di febbraio e marzo hanno avuto un primo momento di ricomposizione nella Marche pour la justice et la dignité et contre les violences policières del 19 marzo. Organizzata da alcune organizzazioni antirazziste e antiislamofobe a partire dal 2015, la marcia ha integrato la denuncia delle violenze poliziesche e la critica dello stato d’emergenza dopo l’assassinio di Adama (19 luglio 2016), stilando un appello a cui hanno aderito diverse famiglie vittime delle violenze. Nonostante alcune criticità dovute alle modalità di organizzazione non orizzontale e al tentativo di recupero da parte di alcuni partiti istituzionali (soprattutto il Parti de Gauche), la marcia ha radunato circa 30.000 persone che, in diversi spezzoni, hanno espresso chiaramente la denuncia delle violenze di stato.
Le mobilitazioni seguite al recente omicidio di Liu Shaoyo, con l’entrata in scena di un deciso protagonismo della comunità cinese, hanno innestato una nuova spinta al movimento.
Nella Francia pre-elettorale, segnata dalle alternative tra l’opzione tecnocratico-liberista di Macron, quella sovranista e neofascista di Lepen, il conservatorismo di Fillon, e l’ambiguo riformismo di Hamon e Melanchon, cala l’ombra di una violenza poliziesca strutturale alla République. L’alleanza “ingovernabile” tra le comunità racisés e le generazioni precarie diventa allora una delle poste in gioco fondamentali per la costruzione di una forza sociale in grado di opporsi al dispositivo poliziesco e neocoloniale di governo neoliberale.
L’articolo fa parte della serie Un Lampo a ciel sereno.