Colin Ward, l’architettura del dissenso

di Sara Marchesi

Un luogo è uno spazio dotato di un carattere, di una sua propria identità: il cosiddetto genius loci, lo spirito del luogo, nasce dall’incontro tra quello che per gli antichi romani rappresentava il Genio, vale a dire la dimensione naturale di un determinato ambiente che precede e persiste all’insediamento umano, e il Lare (letteralmente ‘focolare’),

che rappresenta originariamente lo spirito degli antenati che vegliano tanto sulla casa privata quanto sulla città pubblica e che è quindi portatore del segno fisico e spirituale lasciato nel tempo dall’abitare dell’uomo in un determinato ambiente.

In questa sua doppia accezione – umana e sovra-umana – lo spirito del luogo rappresentava dunque una dimensione con cui l’essere umano doveva necessariamente interfacciarsi e relazionarsi nella sua vita di ogni giorno. Insomma, il luogo è qualcosa che va oltre a un’astratta localizzazione, è un fenomeno totale, il campo di percezione e la dimensione del vivere quotidiano e in tal senso l’architettura dovrebbe svolgere un ruolo di mediazione, perché costruisce lo spazio d’incontro dell’uomo con il luogo, ma anche dell’uomo con l’uomo.

Per questo l’architettura non dovrebbe mai essere una disciplina immobile, ma piuttosto una pratica in continua evoluzione, meglio ancora, rivoluzione, essendo essa manifestazione della cultura materiale di un gruppo umano connessa tanto all’ambiente quanto alle dinamiche sociali, culturali e storiche di un’epoca: “nelle società contadine – scrive Colin Ward – la capacità di costruire e l’uso dei materiali locali erano parte integrante della socializzazione e mai un puro processo funzionale”.

Giacomo Borella, nella sua introduzione alla raccolta di scritti di Ward da lui curata e pubblicata da Elèuthera (Architettura del dissenso, Elèuthera, Milano, 2016, 160 pagine, 14 euro), ne parla come di un “Radicale in senso letterale, in quanto capace di riconsiderare alla radice i rapporti tra architettura, ambiente e dimensione umana elementare”. Come si legge nel primo testo dell’antologia, trascrizione della conferenza Alternative in architettura (Alternatives in Architecture) tenuta da Ward presso l’Architectural Society della Sheffield University nel 1976, nello sviluppo della sua teoria il Movimento Moderno ha dimenticato l’uomo, facendo dell’architettura una disciplina basata su fondamenti ideologici “elitari o brutalmente meccanicisti”, ma con la pretesa di fare dell’architetto l’interprete designato del linguaggio puro dell’architettura come se, appunto, essa non fosse nata dall’uomo per l’uomo.

Con il risultato che, consapevolmente o meno, esso ha consegnato la città nelle mani dei burocrati del potere che hanno inevitabilmente “capovolto le aspirazioni umane degli architetti, trasformando i professionisti in computer addetti al packaging o in primedonne addette alla gioielleria”. Il che porta Colin Ward a prendere in esame i quattro livelli dell’alienazione dell’architettura odierna: l’alienazione del progettista, del costruttore, del consumatore e del prodotto stesso dell’architettura.

Innanzitutto, scrive, l’idea che l’architetto sia detentore di un qualche tipo di saggezza, abilità o competenza superiore in quanto figura in cima alla scala gerarchica del cantiere “poggia su presupposti tutti da dimostrare. Inoltre, il passaggio della formazione dell’architetto dalle modalità dell’apprendistato e del praticantato ai corsi di laurea universitari è servito più a garantire uno status sociale che a trasmettere saperi professionali”. In passato, inoltre, l’architetto era considerato anche e soprattutto un “maestro costruttore” proprio perché la sua formazione avveniva principalmente, se non interamente, sul campo, mentre oggi le competenze tecniche sono delegate nella loro totalità a ingegneri e costruttori, i quali a loro volta sono considerati poco più che bassa manovalanza. E aggiunge citando Geoffrey Vickers che se gli architetti avranno un futuro professionale degno di considerazione sarà quello di farsi interpreti dei bisogni e risolutori dei problemi delle persone al fine di migliorare la qualità della loro esistenza quotidiana: “questo è qualcosa a cui difficilmente può aspirare chi si guadagna da vivere progettando un casermone speculativo per uffici dopo l’altro”.

E tra l’altro, ci fa notare ancora Ward, “la maggior parte degli edifici che ci sono al mondo non è il risultato del lavoro di architetti di professione”, ma sono piuttosto il risultato del lavoro diretto di chi è mosso dalla necessità di un tetto che lo Stato non è in grado o non è interessato a fornirgli. In tal senso l’autocostruzione, tanto di improvvisate case di vacanza come nel caso di Pagham Beach, quanto di vere e proprie abitazioni per coloro che respingono la società urbana spesso perché da essa stessa a loro volta respinti (è questo il caso della Bethnal Green dell’immediato dopoguerra, ma anche degli slums delle metropoli contemporanee), fino ad arrivare agli orti urbani, dà forma alla scelta più o meno obbligata dell’autosufficienza, la quale diviene manifestazione di orgoglio e di quelli che John F. Turner ha definito tre tipi di libertà: la libertà di auto-selezione della comunità in cui vivere, di provvedere al proprio sostentamento con le proprie risorse e di formare il proprio ambiente di vita. Tutte libertà sconosciute all’abitante-guardiano degli asettici e ipersecurizzati complessi residenziali delle nostre città che ormai ricordano più degli “zoo sociologici” o quantomeno dei “musei di architettura”.

Con la sua sensibilità di osservatore della città e dell’ambiente vissuto, l’occhio attento ai dettagli e grazie anche – come ci ricorda Borella – alla sua formazione extra-accademica e pratica, Colin Ward oppone alla scienza architettonica un approccio ibrido che si avvicina talvolta a una ricerca etnografica fatta di studio, ricerca, ma anche di sopralluoghi, interviste e del contatto diretto con le persone, alternata all’attenzione rivolta ad alcuni studiosi, architetti e pensatori, famosi e non, che hanno ispirato in maniera diretta o indiretta la sua stessa visione.

Il suo messaggio sembra essere quello che la teoria non dovrebbe mai essere presa come un sostituto dell’esperienza diretta dell’architettura. Il fatto che l’architettura sia qualcosa di più che un mero gioco formale dovrebbe risultare ovvio già a partire dall’esperienza quotidiana, dal momento che essa ‘partecipa’ alla grande maggioranza delle nostre attività. E nondimeno oggi viene ancora spesso sostenuto che la ‘vera’ esperienza architettonica è puramente formale, ossia estetica. Per questo bisogna guardarsi dalle teorie che sostengono una sola particolare attitudine e ciò significa, d’altra parte, che la teoria dell’architettura non può basarsi nemmeno esclusivamente sull’esperienza diretta.

Con la sua ricerca Colin Ward non ha voluto fornire una trattazione sistematica, archeologica, storicistica dell’architettura vernacolare o delle esperienze di autocostruzione (e tantomeno questo è l’obiettivo di Architettura del dissenso), ma ha voluto piuttosto portare alla luce situazioni, condizioni ed esperienze che possono apparire eccentriche, casuali, cronologicamente scollegate, ma in realtà dense di significato singolarmente e ancora di più nel loro accostamento. I processi, le intenzionalità che li hanno determinati e le opportunità che da esse si sprigionano derivano proprio dal loro dissentire dal discorso dominante, dal rifiuto dell’essere inserite nel catalogo formale e concettuale della teoria architettonica, nel loro astenersi dal fornire informazioni stilistiche, cosicché sarebbe erroneo considerarle il mero prodotto della disperazione o di “persone ingenuamente inconsapevoli e prive di intenzioni progettuali”.

Lo scopo dichiarato di Ward è stato quello di osservare queste esperienze “attraverso lenti anarchiche, definendo per anarchismo la filosofia sociale di una società senza governo statale”.

In un “processo dialettico con la tendenza capitalistica dominante”, Ward ci mostra come l’immaginazione popolare abbia nel tempo sviluppato “un’antitesi all’alienazione”, alla razionalizzazione economica delle politiche urbanistiche e alla speculazione fondiaria.

Citando Richard Lethaby: “non molto può essere dimostrato: ciò che conta è la qualità delle nostre convinzioni”.

 

Immagine – Particolare copertina, Colin Ward, Architettura del dissenso. Forme e pratiche alternative nello spazio urbano, 2016, Elèuthera

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1.