SALTWATER: A Theory of Thought Forms

Uno sguardo interno sulla Biennale di Istanbul 2015

di Elena Mazzi

Frastornata dalla traduzione simultanea in più lingue, ascoltavo provando a prestare attenzione. Nella confusione del caldo, della ressa, della stanchezza della sera prima, seguivo nel cortile del Liceo Italiano di Istanbul la conferenza stampa della Biennale, evento artistico importante che ogni due anni ricorre nella città dei due mondi. Una conferenza stampa che mi riguardava direttamente, essendo stata invitata come artista a partecipare all’evento. La conferenza, insolita nel suo genere, invitava i giornalisti a vivere la città, senza fretta, provando a esperire non solo le opere d’arte, volutamente sparse in più di trenta sedi, ma anche i quartieri, la storia e la stratificazione della città stessa.
I giornalisti, preoccupati della vastità della mostra, provavano a raccogliere più informazioni possibili, ansiosi di non riuscire a cogliere l’interezza dell’esposizione. A complicare le cose, l’assenza voluta del materiale di stampa, reperibile solo a fine conferenza.

‘Questa è una biennale per la gente che vive la città, e se non avete tempo di vederla tutta, vi invito a bere un tè sulla terrazza dell’Istanbul Modern (museo di arte contemporanea, una delle sedi della Biennale) e di aspettare il passaggio dell’opera di Fűsun Onur, collocata su di una barca che attraversa il Bosforo’, afferma la curatrice.

A conferenza conclusa, la folla di gente si è fiondata per le strade di Beyoglu, quartiere europeo della città, cuore della parte occidentale. Garages, case abbandonate, scuole, biblioteche, hotel, studi d’artista erano le locations definite dalla curatrice per la Biennale di quest’anno, scelte affidandosi alla preziosa guida dell’affermato Orhan Pamuk, scrittore turco, premio Nobel per la letteratura 2006.

Avendo la possibilità di potermi fermare a Istanbul per un periodo superiore ai tre giorni consigliati dall’organizzazione al fine di visitare l’evento artistico nella sua interezza, mi sono lasciata guidare da amici locali e dalle strade della città stessa, apprezzando così ogni sede con la giusta calma.
Erano giorni di fuoco, sia per il caldo, quasi trentacinque gradi, che per l’atmosfera che si respirava in città. Rifugiati siriani arrivavano da ogni dove, diretti verso altre mete. La sera ho attraversato varie volte Gezi park con un amico turco, che mi mostrava la solidarietà dei giovani turchi nel rifocillare e sostenere gruppi di persone con bambini al seguito.

In questo clima, alcuni chiedevano che senso avesse preoccuparsi di arte. Gli artisti stessi se lo chiedevano.

Infatti, appena arrivata, ho subito ricevuto una mail, diretta a tutti gli artisti della biennale, scritta da uno degli invitati, che proponeva di spegnere, chiudere o sospendere la propria opera per quindici minuti in segno di protesta.
Mi domando che senso abbia sospendere qualcosa che traduce il mio senso di disagio, disgusto e opposizione, che dà voce a ciò che sento e a ciò in cui credo. Mi domando che senso abbia auto-censurare la voce di chi, in maniera non violenta, traduce in forma e colore i propri valori. Personalmente, è l’unico modo che conosco, è il mio modo, e non ho intenzione di rinunciarvi.

 

Dentro uno dei garages usati come sede espositiva per l'artista Kristina Buch

Casa abbandonata sull'isola di Bűyűkada, usata come sede espositiva dell'artista Susan Philipsz

 

Veduta dell'installazione dell'artista italiano Fabio Mauri

Così ho deciso di non ‘spegnere’ il mio video, ma invece di continuare a percorrere le trame della città, alla scoperta e alla ricerca di artisti che stimo ed amo da anni, onorata di poter condividere quest’esperienza con loro al mio fianco, ma anche alla scoperta di artisti sconosciuti, provenienti da aree geografiche che raramente raggiungono il mondo dell’arte contemporanea occidentale: Egitto, Libano, India, Africa Centrale. Tra tanti, è stato interessante scoprire una nuova generazione di giovani artiste turche donne, come me alla prima esperienza di una Biennale internazionale.

Tra i media, i più disparati: video, installazioni, disegni, dipinti, collage, sculture, ma anche libri d’artista, ormai sempre più presenti. Ma anche installazioni sotto il mare, da immaginare, per dar luogo e spazio alla mente, nella bellezza del Bosforo.

Il visitatore era ‘costretto’ in un certo senso ad attraversarlo in lungo e in largo: in orizzontale, fino all’isola dei principi, l’isola di Buyakada, dove il principale mezzo di trasporto è una carrozza trainata da cavalli, o le proprie gambe, in alternativa. In diagonale, fino a Kadikoy, area estremamente turca, dove molti giovani artisti vivono e lavorano nei propri studi. In verticale, fino all’estremità nord del Bosforo, alla scoperta di altre due importanti opere. In cerchio, vagando tra una location e l’altra del quartiere europeo, fino ad arrivare al Kucuk Mustafa Pasa Hammam, con l’opera del grande Wael Shawky.

 

Durante uno degli attraversamenti notturni del Bosforo
Una parte dell'installazione di Wael Shawky presso il Pasa Hammam

I disegni di Santiago Ramon y Cajal, patologista e neurologo spagnolo nato nel 1852

Fotografie del matematico e fisico norvegese Carl Stormer, nato nel 1874

Ogni lavoro aveva il potere di dialogare in maniera sublime con l’ambiente ospitante. Non solo i muri che la contenevano, ma anche le strade che la circondavano, abbracciandola come a diventare un tutt’uno, come se quell’opera fosse destinata a rimanere lì per sempre, e non solo per due mesi. La precarietà di ogni singolo luogo aggiungeva fascino, dialogo e storia al lavoro stesso. In più, per tutta la durata della Biennale vi erano conferenze atte a sviscerare dialoghi tra diverse discipline, sul tema dell’acqua salata. Fisici, artisti, psicologi, matematici, geografi, letterati, curatori si confrontavano ogni giorno su letture, disegni, a riprova di una ‘theory of thought forms’, come recita il sottotitolo dell’evento.

E’ questo spingere la visione oltre il normale dialogo confinato all’operare artistico che trovo particolarmente significativo e parte del mio modo di vedere il mondo: un’arte che dialoga con diverse discipline, che si confronta, che non vuole rimanere ottusamente confinata al proprio settore di nicchia, ma che si relaziona al mondo circostante, un mondo fatto di natura, di persone, di attitudini, di mestieri differenti, di traduzioni diverse.

Allo stesso modo, il catalogo della mostra vedeva il contributo di testi scelti dagli artisti, non per forza legati al mondo dell’arte. Personalmente, ho scelto un contributo di un antropologo italiano, che ha proposto negli ultimi anni una interessante riflessione sul turismo contemporaneo, argomento indagato nell’opera presentata ad Istanbul, e per questo pertinente. Ne cito qui un estratto:

 

“La questione dell’autenticità ruota attorno a un presupposto che, nelle molte discussioni sentite tra turisti e nei dibattiti sul turismo, non sembra mai essere messo in discussione: che cioè esista una sorta di grado zero dell’autenticità di una cultura, superato il quale iniziano le contaminazioni, con la conseguente perdita dell’autenticità stessa. Possiamo davvero ipotizzare che in passato sia esistito un periodo di purezza assoluta, terminato tragicamente nel contatto con l’Occidente? Non si può negare che il colonialismo e l’imperialismo abbiano avuto un ruolo fondamentale nell’indurre trasformazioni culturali se non, in alcuni casi, delle vere e proprie devastazioni, ma attribuire al solo mondo occidentale la capacità di provocare cambiamenti significa adottare una visione etnocentrica che nega agli altri la possibilità di fare storia.
Jean-Loup Amselle (Logiques metisses. Anthropologie de l’identité en Afrique et ailleurs, Payot, Paris 1990) denuncia l’inutilità di andare a ritroso per cercare lo stato ‘originale’ di una cultura, in quanto le culture nascono già in una dimensione meticcia e sono il prodotto di un continuo mutamento. Così come le tradizioni (altro appiglio per i cacciatori d’autenticità) non sono forzatamente legate a un passato antico, ma talvolta sono il frutto di un evento recente, non per questo meno significativo”.

 

da Marco Aime, L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2005.
pp.127-129

 

Con questo non voglio sminuire passaggi importanti, né colpe. Però credo sia giunto il tempo di interrogarsi sul proprio rapporto con l’attraversamento dello spazio geografico, del suolo su cui viviamo, dei rapporti internazionali che nascono dalla condivisione di questo suolo, dall’attitudine con cui andiamo alla ricerca di un’altra parte di mondo, per curiosità, conoscenza, o per necessità sociale e politica, ma soprattutto del come lo facciamo, con quale sensibilità e con quanta attenzione. Siamo davvero capaci di leggere le mille sfumature delle culture che ci circondano? Se no, perché le condanniamo così facilmente e velocemente?

 

Veduta della mia installazione presso il Liceo Italiano

Veduta della mia installazione presso il Liceo Italiano

 

L’operazione di questa Biennale per me è consistita non solo nel guardare una o più opere d’arte, ma nel guardare il percorso fatto per arrivarvi, con tutti i possibili ostacoli o piaceri che questo comporta. Mi ha stupito molto invece la paura che sembra aver bloccato molti dal voler oltrepassare gli ostacoli: nonostante la Biennale abbia avuto moltissimi visitatori, molti hanno cancellato il viaggio in programma per paura di attacchi o per il caos legato ai movimenti migratori in atto. Questa idea di attraversamento insita nel concept della Biennale stessa ha ‘spaventato’, e la cosa mi rammarica molto.

Credo che invece queste siano e debbano essere sempre più le armi culturali di cui tanto si millanta: la creazione di un percorso strutturato, che delucida, stupisce, diventa parte del tessuto sociale e territoriale, che ‘traduce’.

Ripenso all’opera della giovane artista tedesca Kristina Buch, una video installazione a due canali nel cuore della Beyoglu più popolare: suoni di esplosioni fortissime, ripetute a catena e che si sentono in lontananza, rivelano un confronto tra natura e sistema dell’arte, anche se fanno subito preoccupare e pensare ad altro mentre si cammina alla ricerca dello spazio artistico. Personalmente, l’ho trovato geniale, a differenza dei vicini di casa che, per motivi differenti, sono giunti a patti con l’artista, patteggiando per presentare l’opera in cuffia negli orari più critici (prima mattinata e tardo pomeriggio). Confido vivamente in nuovi ostacoli da affrontare e oltrepassare mediante il medium culturale.

 

 

ELENA MAZZI Artista. La sua poetica indaga il rapporto tra l’uomo e l’ambiente ad esso circostante, nel quale vive e con il quale si confronta ogni giorno: una tipologia di analisi che spesso si lega ad uno sguardo e ad un approccio di tipo antropologico, che va ad analizzare un’identità al contempo personale e collettiva, che si relaziona con uno specifico territorio, e che dà adito a modalità di scambio e di trasformazione che necessitano di essere indagate, esplorate e trasmesse.

 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1.