So Contemporary/Maria Lai

di Giusi Affronti

Avanguardia, ago e filo: Maria Lai
Ulassai, 8 settembre 1981 – A fotografare Legarsi alla montagna è Piero Berengo Gardin e le immagini faranno il giro del mondo. Ulassai è un paese incastonato tra le guglie calcaree e l’arida terra dell’Ogliastra, nel ventre di un’isola silenziosa come la Sardegna.

Qui il senso di vertigine quotidiana degli abitanti, quasi tutti pastori di capre sempre in allarme tra siccità e alluvioni, è esasperato da un’azione dell’artista Maria Lai, un corpo minuto e un casco di capelli grigi. Pure il parroco, dal pulpito, predicherà la miscredenza verso l’arte contemporanea ché ha luogo fuori dai musei.

Quel giorno la comunità di Ulassai è interprete di una performance: ventisei chilometri di tela jeans celeste legano le case del paese fra loro e, poi, alla montagna che le sovrasta. A passare il nastro di casa in casa, di finestra in finestra, attraverso le strade strette, sono anziani dalle mani nodose, uomini burberi, donne vestite di nero e bambini. “Dov’è l’arte?”, si domandano a ogni gesto. C’è diffidenza, si condivide il timore di apparire ridicoli: è in ballo qualcosa di molto importante, la dignità.

Ulassai non costruisce un monumento in senso tradizionale ma, attraverso l’ostinazione collettiva e l’esperienza di ciascuno, partecipa a un’azione d’arte effimera che resterà nella memoria del paese e fra le tante leggende che ogni sasso la terra di Maria Lai sembra avere ispirato …

Questa volta, però, la leggenda è storia e incontra la vita vissuta degli ulassesi. L’artista è condotta fra la gente, accolta nel chiuso delle loro dimore, ad ascoltare storie di rancori, di furti e di malocchio: è chiamata a giudicare drammi familiari, inimicizie e rivalità ataviche.

Si stabilirà una legenda condivisa affinchè il passaggio del nastro celeste – forse rubato da Maria alla Madonna – segnali, in modo diversificato, la qualità dei legami fra le famiglie, come una mappa del cuore che non conosce ipocrisie: davanti al rancore, il filo corre liscio fra gli spigoli delle case, senza nodi; un fiocco sigilla le amicizie; dove è nata una storia d’amore si fanno pendere pizzi e pesanti moddizzosu, i tradizionali pani delle feste.

L’arte di Maria Lai, più forte della cristiana lezione del “porgi l’altra guancia”, compie uno di quei piccoli miracoli meridionali: lega le case di Ulassai una per una e stringe a doppio filo i suoi abitanti fra loro (ri)cucendo, infine, lo slabbrato tessuto di relazioni di una comunità. L’artista, con un immaginario lavoro di fuso e ordito, dipana i grovigli di una memoria ancestrale abbandonandosi al loro ritmo, come si fa con la poesia. L’arte, si sa, è salvezza.

Maria Lai (Ulassai 1919 – Cardedu 2013), da bambina impara a disegnare col carbone sulle mattonelle di un terrazzo prima che a scrivere; trascorre, selvatica e piena di favole, la sua infanzia in campagna. Giovanissima, si trasferisce a Roma lasciando i paesaggi incontaminati e il mare scuro della Sardegna, in un andirivieni di fughe amare e dolci ritorni che solo chi nasce su un’isola sperimenta.

Il destino sceglie per lei una vita da artista in un momento storico – gli anni Quaranta – in cui l’arte è un lavoro per soli uomini. <>, ripete in dialetto, a ogni lezione, lo scultore Arturo Martini a Maria Lai, sua unica allieva donna al corso di scultura all’Accademia di Belle Arti a Venezia.

Nonostante il pregiudizio degli artisti e lo scetticismo della famiglia che la definisce “una capretta ansiosa di precipizi”, Maria Lai compie un’ottuagenaria carriera nel mondo dell’arte attraversando il disegno, il ricamo, la scultura, la performance e l’installazione ambientale in una sperimentazione tecnica ed estetica senza fine, figlia della lezione dell’Arte Povera. Segno e materia, rito della manualità ed esercizio concettuale, tradizione e arte contemporanea.

Maria Lai, come altre artiste nel Novecento, recupera la tecnica artigianale della tessitura: l’ago, il filo e la solitudine della paziente gestualità del ricamo costituiscono un sistema di segni tradizionalmente femminili. Trasferirli dal silenzio delle mura domestiche al grande palcoscenico dell’arte mainstream diventa un’azione di emancipazione politica.

Piacerebbero a Oldenburg, artista della Pop americana, le grandi installazioni in acciaio a forma di aghi di Maria Lai, con un filo attorcigliato e conficcati alle pareti come fa una sarta sulla stoffa quando riposa un po’. Immagini che riecheggiano, in Sardegna, il tempo del focolare attorno al quale si rammendava e, mentre il filo andava e veniva, si raccontavano fiabe di castelli e crepacci, di campanelli fatati e capre magiche. Perché tessere è come imbastire parole, inventare storie, conservare la poesia dell’esistenza.

Di sognare Maria Lai non smetterà mai: comincia a quattro anni quando scappa con una compagnia di zingari e impara a camminare velocissima in punta di piedi, sugli alluci, e altre giocolerie simili. Una notte viene riportata a casa ma in quei carrozzoni l’artista di Ulassai continuerà a viaggiare per tutta la vita, con la fantasia.

 

 

 

 

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