Il Giovedì, buona festa ai papà
Oggi è la festa del papà. La data della ricorrenza è serva di meccanismi indotti. Un motivo di più per colmare di significato la data. Siamo certi di fare cosa gradita: “Il Giovedì”, di Enrico Sibilla
Oggi è la festa del papà. La data della ricorrenza è serva di meccanismi indotti. Un motivo di più per colmare di significato la data. Siamo certi di fare cosa gradita: “Il Giovedì”, di Enrico Sibilla
“Giacomo, mio. Mi sforzo di immaginarti e riesco solo a vederti come sei oggi ma esploso in altezza, lo stesso volto piccolo sul tuo piccolo corpo che ho solo allungato nelle proporzioni. Non c’è stata metamorfosi in quello che immagino: sei tu, non cresciuto ma semplicemente ingrandito, conservato identico in tutto, soprattutto nella quiete bionda e innocente.”
buio, lentissimo buio, lentissimo e di nuovo forse ritorno ma sopra la faccia ho come calcato un passamontagna di lana di vetro privo di fori
È la mia mano invecchiata anzitempo in fondo al mio braccio quella che serra le dita in un pugno che non è troppo grande e non è troppo forte e che tuttavia sbatte violento sul muro colorandosi a schizzi del rosso del sangue che è il mio ma che altrove è anche il sangue del mio piccolo Giacomo biondo.
Per la terza volta nella nostra vita affidata congiunta attraversiamo il portone che dà sull’androne che dà sulle soglie che danno dentro le piccole classi e subito noto che i muri sono freschi del bianco dato durante l’estate. Spariti sono i disegni dei bambini, e andate sono le cartine dell’Italia geografica dell’Europa politica. Resiste invece rigida nel suo angolo alto la madonna con le braccia conserte di gesso, che anzi appare ancora più rosa ancora più azzurra nel contrasto con il candore d’idropittura che la circonda.
La faccia attorno a quella bocca attorno a quella lingua non la ricordo, ma era certo troppo truccata, sicuramente affiorata dal rumore dantesco bianco di un bar in una sera di quei primi tempi della mia deriva, cinque anni fa.
Succede ogni estate. Giacomo parte e restiamo lontani più giorni di un mese. Lui non telefona e quando lo chiamo risponde sillabando tenue come fanno i bambini di cinque e poi sei e poi sette e poi otto anni che hanno altro da fare. Oppure è Simona che lo distrae con una foto da scattare, un bicchiere da bere, una doccia da fare. Sempre in quei due minuti in cui chiamo, qualsiasi sia l’ora in cui chiamo.
Filtrano tra i rami senza cautela come lame bianche cangianti mai parallele e sono i raggi del sole che si muove oltre l’albero sotto cui siedo. Sto su una panchina dove non arrivano i motori ma da cui posso seguire le rondini salire e poi virare e poi sparire dietro basse chiome bigioverdi o tetti geometrici piatti, l’orizzonte impedito dall’architettura popolare suburbana.
Sono tre ed entrano senza salutare; non chiedono dove possono mettersi ma vanno dritti a un tavolo da sei e ci si installano, sparpagliando le proprie cose ovunque, sul tavolo sulle sedie per terra.
Più che un luogo, è un inciso, un intervallo: ha spazi piccoli dedicati a funzioni normali, le quali rimangono però disattese inattive potenziali, perché questo è un territorio, non ostile ma alieno, in cui torni la sera, esausto vinto battuto, e da cui evadi lesto al mattino, per farti esaurire vincere battere ancora.