Diario siriano: storie di rifugiati in Turchia 2

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16 Gennaio 2020

La storia di Ayman

La guerra al nord della Siria e la recente espulsione (in alcuni casi, ricollocazione) di migliaia di profughi siriani irregolari da Istanbul (il vali – governatore – di Istanbul ha dichiarato che circa 6.416 rifugiati siriani irregolari verranno trasferiti nei campi profughi turchi, coloro i quali non hanno invece la residenza a Istanbul saranno invece trasferiti nelle altre città turche presso le quali sono registrati), ha riproposto all’opinione pubblica internazionale la questione dei rifugiati. Ogni volta che sentiamo questa parola, pensiamo subito a qualcuno che sta scappando da una guerra, spesso su un gommone o su una barca. È sempre difficile, però, conciliare questa immagine stereotipata a quella di una persona che da quel gommone o da quella barca riesce a scendere, iniziando così a ricostruirsi una quotidianità. Diario siriano nasce dalla voglia di dare un volto concreto ai rifugiati siriani in Turchia, raccontandone le storie attraverso le loro stesse parole.

Ayman [1]

Ayman è uno o forse più di uno: la sua storia e quelle di tanti altri che ho incontrato qui ad Istanbul si assomigliano. Viene da Damasco, o forse da Aleppo, e in questo caso potrebbe anche essere di Idlib, già che non ne è molto distante.

È arrivato ad Istanbul circa sei anni fa, come tutti gli altri. Per le opportunità economiche che offre, Istanbul è la città che più di tutte ha attirato rifugiati siriani in questi anni. Molti di loro in Siria studiavano all’università, alcuni già lavoravano. Qui ad Istanbul lavorano quasi tutti nei ristoranti siriani di cui vi ho raccontato nella puntata precedente.

Sono ogni giorno lì. Per me sono ormai diventati volti famigliari sulla strada che va da Beyazit- dove si trova il Gran Bazaar- a Çapa, il cuore sconosciuto della Istanbul più antica, quella dove le chiese diventarono moschee, e te ne rendi conto perché alcune hanno davvero una forma strana: come se la base dell’edificio, in tensione, cercasse di seguire il minareto apposto solo secoli dopo.

Così pian piano è cambiata, ancora una volta, l’estetica di quei luoghi. Ci andai per la prima volta nel 2014 e c’era solo qualche panetteria e pochi locali, che però adesso sono pieni degli eccentrici colori delle divise dei ragazzi siriani che lavorano come camerieri e dell’odore dolciastro del narghilè alla mela di quelli che invece siedono nelle caffetterie arabe. Sono sempre le stesse facce, i pantaloni stretti che lasciano scoperte le caviglie. Tutti hanno poco più di vent’anni e lo stesso taglio di capelli che acconciano meticolosamente con phon e brillantina. Si chiamano quasi tutti Ahmed, Mehmed, Mahmood, ma sono tutti Ayman.

Dalla scorsa estate per loro la vita a Istanbul è diventata più difficile. Questo non solo per l’afa, le interminabili giornate di Ramadan a giugno, le ore passate sotto al sole, al bancone vendendo coni giganteschi, portando ai piedi infradito in plastica a prova di qualsiasi traspirazione. A peggiorare la loro situazione ci si è messa un’ordinanza del governatore di Istanbul, che in questo modo ha tentato di ridurre e regolamentare almeno un po’ la complessità della realtà siriana di Istanbul.

Diversi sono infatti i casi di siriani che lavorano senza un regolare permesso di lavoro, altri senza permesso di soggiorno, altri ancora- stando alle notizie che circolano dallo scorso luglio- pare vivano e lavorino ad Istanbul pur avendo la residenza presso altre città turche.

Proprio a queste ultime due categorie è rivolto il provvedimento del governatorato di Istanbul, che tra il primo gennaio ed il 31 ottobre del 2019 ha espulso dalla città 6.416 siriani senza documenti regolari, ricollocandoli presso i centri temporanei di permanenza per i rifugiati.
Tanti di loro verranno mandati nelle città dove hanno la residenza, tutti gli altri resteranno nei campi profughi.[2]

Gran parte dei rifugiati non ha infatti la residenza a Istanbul: alcuni erano stati registrati in città nel sud della Turchia, come Malatya, Gaziantep, Kilis. Altri in città dell’Anatolia centrale, ad esempio a Yozgat o ad Ankara. Altri nelle città sul Mar Nero.

“È per garantire loro una migliore assistenza medica presso le aziende sanitarie delle città presso cui sono registrati, far sì che possano apprendere meglio il turco nelle scuole locali, è per la loro sicurezza”: le autorità turche si giustificano così.

“Il problema è che c’è gente come il mio amico che è padre di quattro figli. Lui, sua moglie e tre dei bambini sono registrati qui ad Istanbul. Solo uno è stato registrato giù a Kilis. Cosa dovrebbero fare, ora? Restare loro a Istanbul e rispedire quell’unico figlio a Kilis? Mi sembra tutto così insensato”. E ancora: “È da pazzi chiedere a persone che con fatica si sono costruite una vita qui, hanno un lavoro, una casa, bambini che vanno a scuola, di spostare tutto nel giro di un mese e mezzo e rifare tutto daccapo in un’altra città”; “Altrove, in altre città turche, non avremmo le stesse opportunità di lavoro che abbiamo qui ad Istanbul”.

A parlare questa volta è Ayman. E tutti quelli come lui, che insolitamente non fa il cameriere ma macina caffè in una bottega. La prima volta che lo incontro è proprio perché sono andata lì per comprare quel caffè più o meno aromatizzato al cardamomo che a Istanbul vendono solo i siriani. I pistacchi nei dolci sugli scaffali creano una sorta di effetto mosaico, con quel verde che contrasta con il color oro delle dallah (la macchinetta per il caffè arabo), che si trovano sugli scaffali della parete opposta.

Questa è la bottega di Ayman. Diversamente da tanti suoi connazionali, parla molto bene il turco e ci riconosciamo in quanto stranieri solo perché ci rendiamo conto di avere due accenti molto diversi da quello turco, il mio più cantilenante dai suoni aperti, il suo più gutturale e profondo. Siamo entrambi migranti qui ad Istanbul, ma io sono in una posizione migliore: dire “Italia” richiama nei turchi una serie di immagini e sensazioni che sono certamente diverse da quelle evocate dalla parola “Siria” in questo momento storico. Le reciproche domande di rito: da quale città della Siria vieni, in Italia vivi a Roma, da quanti anni abiti in Turchia. Da parte mia, evito ovviamente di chiedergli perché si trovi qui

Mi siedo e mi offre un caffè, che prepara su un fornellino da campeggio. Poi, aiutandosi con due coltelli, apre un secchio bianco- come quelli per la pittura per le pareti- e da una massa sciropposa al suo interno estrae un pezzo di frutta candita.

All’inizio penso sia zucca, poi l’odore del chiodo di garofano, mi fa capire che si tratta di mela cotogna: “Assaggia, l’ho fatta io” mi dice. Gli chiedo cosa facesse prima di arrivare in Turchia: “Ho vissuto tra Beirut e Damasco per tanti anni, ero un avvocato. Facevo avanti e indietro tra la Siria ed il Libano, ma la mia famiglia abitava ad Aleppo. Adesso due dei miei figli sono ad Idlib, ma non li sento quasi mai”.

È curioso come una persona che un tempo era un avvocato, adesso abbia una bottega di caffè. Poi però mi ricordo di un particolare che mi era stato raccontato tempo fa: le vecchie generazioni di siriani imparavano un secondo mestiere per hobby. Così c’è chi si è specializzato nel fast food, come Nizar [3], chi nel commercio, come Ayman.

 

“Quando siamo arrivati qui, i turchi ci hanno detto che saremmo stati come ansar e muhajirun”. Ansar in arabo significa “colui che aiuta”, mentre “muhajirun” è il nome che indica i primi convertiti all’Islam, coloro i quali- seguendo Maometto- fuggirono da Mecca e si recarono a Medina, dove ad accoglierli furono gli ansar, “coloro che aiutano”, appunto.

Riportando questo esempio al contesto attuale, accogliendo oltre tre milioni di persone dalla Siria, cui hanno garantito lo status di rifugiati [4], i turchi si sono comportati come “coloro che aiutano”.

In effetti è stato così e tante sono state le iniziative e i progetti dedicati ai rifugiati siriani in questi anni: in collaborazione con l’Unione Europea e la Commissione Rifugiati delle Nazioni Unite, la Turchia ha garantito istruzione, assistenza sanitaria, protezione e sostentamento a tantissime persone.

I campi profughi a Ceylanpınar e Öncüpınar sono stati presi a modello per la loro efficienza, tanti sono i programmi per l’insegnamento della lingua turca e l’inserimento nella scuola dedicati ai bambini e ai ragazzi siriani.

Per quanto riguarda gli studenti universitari, invece, i titoli e i diplomi siriani sono stati riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione turco, permettendo così a tanti giovani di continuare gli studi universitari.

Esistono anche programmi di borse di studio dedicati ai cittadini siriani, associazioni che si occupano dei loro problemi, come ad esempio la Mülteciler Derneği (Associazione Rifugiati). E ancora: dottori siriani negli ospedali turchi, personale di madrelingua araba assunto appositamente presso gli uffici immigrazione, una carta di credito speciale, nata in collaborazione con la Mezzaluna Rossa turca [5], che può essere utilizzata per l’acquisto dei prodotti di prima necessità, un’applicazione per smartphone sviluppata dalla Türkçell (il principale gestore telefonico della Turchia) pensata per insegnare il turco e per i servizi di traduzione simultanea turco- arabo e viceversa.

Ayman, non capisce: “Perché ci hanno detto che saremmo stati come ansar e muhajirun, se adesso ci mandano via? Perché tanti di loro ce l’hanno con noi? Dicono che siamo noi i responsabili della loro crisi economica, degli affitti che salgono, dell’aumento dei crimini, dello spaccio di droga…”.

Se tante sono state le iniziative a favore dei rifugiati, altrettanto grande è stata la propaganda anti immigrazione fatta da media e partiti turchi.

Un malcontento che se da un lato ha molto di populistico, dall’altro è anche indicatore della poca prospettiva a lungo termine e razionalità con la quale forse è stato gestito il flusso migratorio in questi anni.

Io provo a spiegargli che questi non sono i pensieri di tutti i turchi, che c’è tanta disinformazione e che sicuramente la stampa turca non fa abbastanza per spazzare via i pregiudizi sui siriani. In tanti, però, hanno capito la sua sofferenza e quanti sforzi ha dovuto fare per ricostruirsi una vita qui.

Io stessa sono consapevole di quanto sarà difficile per tanti siriani ricominciare da capo in un’altra città, in un clima politico e sociale che sicuramente non è dalla loro parte. Allo stesso tempo, mi rendo però conto dell’effettiva poca organizzazione con cui è stata gestita l’immigrazione siriana ad Istanbul: le associazioni che si occupano dei loro problemi esistono, ma sono poche e non bastano ad occuparsi di migliaia di persone; tanti sono gli esercizi commerciali siriani che restano aperti senza licenza; è difficile controllare quanti bambini e ragazzi vadano a scuola e quanti invece lavorino in nero.

In aggiunta, presso le strutture sanitarie locali è spesso difficile occuparsi di tutti i pazienti siriani, proprio perché molti di loro sono registrati presso le aziende sanitarie di altre città. Non è facile lavorare sull’integrazione tra turchi e siriani in una città come Istanbul: per quanto sia cosmopolita, ha pur sempre la complessità di una megalopoli.

Con venti milioni di abitanti circa, popolata dalle nazionalità più disparate (dagli statunitensi agli uzbeki), è difficile da gestire nelle complesse relazioni culturali e umane che vengono a crearsi, soprattutto nelle sue strade e vicoli [6], specie se queste hanno una storia antica come quella dei rapporti fra turchi e arabi. In altre zone della Turchia, meno popolate rispetto ad Istanbul, probabilmente queste problematiche sono più facilmente gestibili. Tra le motivazioni che hanno portato all’emigrazione forzata dei siriani da Istanbul, potrebbe esserci anche questa.

È difficile spiegare tutto questo al mio interlocutore, aspettandosi che lui le accetti in maniera razionale. Una delle cose che ho imparato grazie alle mie conversazioni con le persone come Ayman, rifugiati, persone che hanno perso i loro affetti, che da anni non vedono la loro famiglia e che forse non la rivedranno mai più, è che c’è una soglia oltre la quale ogni ragionamento ben argomentato non riesce ad andare.

È sempre difficile spiegare razionalmente la politica e le leggi a chi è stanco dopo anni di vita improvvisata, in un Paese nuovo, complesso come la Turchia. Imparare una nuova lingua, adattarsi a un nuovo sistema, imparare un nuovo mestiere quando si è lontani da casa propria, watan (patria) come la sento sempre chiamare dai siriani.

Quando si hanno già addosso questo peso e questa stanchezza, è pesante accettare nuove regole, giuste o assurde che siano: “Per ogni siriano assunto devono esserci almeno altri cinque dipendenti turchi. Questo sai cosa significa? Che perché in un ristorante possano lavorare tre ragazzi siriani, dovrebbero esserci almeno altri quindici camerieri turchi! Un ristorante con 18 camerieri? È impossibile!”.

Ayman si riferisce a una delle leggi che regolamentano l’assunzione di lavoratori siriani- fortemente restrittiva- e che secondo lui giustifica indirettamente la scelta di lavorare in nero di tanti suoi connazionali (anche perché senza regolare assunzione da parte di un cittadino turco, in Turchia non è possibile ottenere un permesso di lavoro).

La nostra conversazione va avanti, ma io avevo già finito il caffè mentre Ayman mi spiegava la storia di ansar e muhajirun, ma continuo a tenere la tazzina in mano come se fosse ancora in parte piena: conosco la generosità delle persone come Ayman, e so che se si accorgesse della mia tazza vuota, provvederebbe subito a riempirla con altro caffè ed io vorrei non approfittare della sua gentilezza.

Il mio tentativo serve però a poco, e quando lui si accorge che il mio caffè è finito, allora mi offre un tè, ordinato da un suo amico che lavora lì vicino. Anche il tè è una questione culturale qui in Turchia: di colore rossastro, quello turco, più sul marrone quello che amano bere gli arabi, un sapore pungente e deciso, un odore che ricorda quello della terra. So definirlo solo in opposizione al tè turco, e quello che mi è stato offerto è inequivocabilmente tè arabo.

Io ed Ayman continuiamo a parlare, gli chiedo della sua vita a Damasco, della sua giovinezza. Mi racconta degli anni del liceo, dove studiava con i suoi amici circassi e arabi. Di come Damasco, Sham al- Sharif (la nobile Damasco), fosse una città dove davvero c’era spazio per tutti, che davvero ha accolto chiunque, dai palestinesi ai curdi, dai circassi agli armeni, dai rifugiati dalla Cecenia agli iracheni. Mi fa capire come le distinzioni tra popoli, etnie e religioni qualche decennio fa non erano poi così importanti come lo sono oggi.

C’è una nota di dispiacere in questo suo racconto, perché non manca di farmi notare come la sua Siria fino a poco prima dell’inizio della guerra, nel 2011, abbia aperto davvero le porte a chiunque, e di come ora i siriani siano stati rifiutati da tutti o quasi, ed è per questo che sarà sempre grato alla Turchia per averli accolti, nonostante le delusioni degli ultimi mesi.

Finisco il mio tè, questa volta però mi alzo velocemente dallo sgabello su cui sono seduta da ormai due ore, in parte per non farmi offrire più nulla, in parte perché è quasi ora di andare a pregare per Ayman. In queste due ore sono entrati per rifornirsi di caffè fresco i camerieri dei ristoranti lì vicino, alcuni suoi amici, una cameriera turca in cerca di qualcuno che le cambiasse 50 lire, il barbiere lì a fianco per bere un caffè.

Saluto Ayman, esco dalla sua bottega con la promessa di ritornarci per fare due chiacchiere e fargli sapere cosa ne penso della miscela di caffè che mi ha consigliato di prendere. Mentre cammino verso la fermata del bus mi guardo intorno e mi accorgo che nonostante tutto si sente sempre parlare arabo su quella strada, che le insegne dei negozi continuano ad essere in parte in quella lingua. Non tutti i siriani sono stati mandati via da Istanbul, ancora tanti di loro sono qui ed è evidente da questi scorci di quotidianità: fanno ormai parte dell’identità di Istanbul, come qualsiasi altro popolo sia passato da questa città, ormai da secoli.

NOTE

[1] Ayman è un personaggio fittizio, scelto per rappresentare le opinioni condivise da tanti siriani circa le recenti leggi sull’immigrazione della Turchia.

[2] fonte giornale Hurriyet

[3] Il protagonista del primo episodio di “Diario siriano”.

[4] Per i diritti e i doveri del rifugiato in Turchia

[5] L’equivalente della Croce Rossa in Turchia.

[6] Nell’episodio precedente di “Diario siriano” vi ho raccontato delle proteste dei commercianti turchi contro l’uso della lingua araba per le insegne dei negozi siriani.