Ancora dodici chilometri

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28 Gennaio 2020

Migranti in fuga sulla rotta alpina

“Cento euro per qualche informazione, per un andate di qua e poi di là, e poi proseguite dritto, e poi non accendete mai i cellulari, e nemmeno le torce, e non fumate, e non parlate, andate avanti e basta e state zitti. Non una parola sul vestiario inesistente, i mocassini spaiati, non una parola sul posto di blocco che inesorabile attende i venti uomini che partono dalle viuzze di Claviere, direzione Briancon, via Monginevro. Coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, in cerca di una nuova vita. Gli ultimi dodici chilometri di un viaggio che ha attraversato mari, deserti, catene, schiavitù, barconi, violenza, razzismo, stupri, morte. Gli ultimi chilometri prima di un rifugio, dove si ammassano tutti i migranti che ce la fanno.”

Quei chilometri son quelli dell’ultimo tratto, dal confine tra Italia e Francia, tra le Alpi. Sono quelli che segnano la differenza tra la vita e la morte per tante persone. Son quelli della cosiddetta ‘rotta alpina’, della quale si parla meno, perché non ha i numeri del Mediterraneo, perché non ha le attenzioni dei media sulla Balkan Route. O chissà perché.

Maurizio Pagliassotti è scrittore e giornalista, per il manifesto. Il suo Ancora dodici chilometri, Bollati Boringhieri editore, è un libro che tiene assieme il reportage, l’analisi e – nel solco del buon giornalismo narrativo – un contesto. Che non è solo reportage e non è solo analisi. Un contesto, raccontato bene, è un mondo intero.

E questo mondo, nel libro di Pagliassotti (arricchito anche da una bella introduzione di Andrea Bajani), è grande e piccolo allo stesso tempo. Perché racconta dinamiche globali, ma partendo da piccoli sentieri di montagna, da baite e case, da bar e piazze della provincia estrema.

Un mondo che racconta del comparto della frutta di Saluzzo, che ama le braccia ma non le persone, che racconta dei gitanti della domenica con i SUV e degli sparuti gruppi di migranti che arrivano con il bus fino a Claviere e vanno incontro al loro destino. Racconta di chiese occupate e di chiese chiuse, anche a Ventimiglia, che dimenticano quel che diceva il Dio che raccontano.

Un mondo fatto di confini che servono solo a dividere – identificare, riconoscere – i ricchi dai poveri.

Una frontiera militarizzata senza senso, perché è solo un gioco, sulla pelle degli ultimi. Tutti sanno, tutti lasciano accadere. Un mondo che parla di criminalizzazione della solidarietà, fino a quando le procure francesi si muoveranno contro quegli attivisti che aiutano i migranti e che agli stessi migranti, viene chiesto di identificare. Che magari sono militanti NoTav, magari no, ma escono di casa di notte a recuperare chi si è perso. A volte nascondendoli, a volte curandoli, ma senza mai lasciarli soli.

Un mondo che racconta una frontiera che per anni è stata fatale agli stessi italiani (quasi 60mila quelli che andarono in Francia subito dopo la Seconda guerra mondiale), come nel film di Pietro Germi, Il cammino della speranza. Un mondo che ha dimenticato quel che era, un mondo vuoto abbandonato, ma che preferisce morire piuttosto che accogliere nuove vite. E che trova un razzismo da scaricare su qualcuno come lo ha provato sulla sua pelle.

scena finale del film Il cammino della speranza di Pietro Germi

Un libro che è un ottimo esempio di giornalismo narrativo, che non scambia il vero per il verosimile, che non sente il bisogno di fare letteratura sulla pelle dei migranti, ma che non diventa mai pornografia dell’orrore.

Un libro che, dal punto di vista del cronista, fa una scelta dura e condivisibile: non ferma mai un migrante (o decide di non raccontarlo), perché si mette di fronte a una scelta, come quella delle persone in fuga e in cammino lungo la strada.

Saltare addosso a una persona, che anche nella morte non vede un limite, perché lungo un viaggio di mesi, anni, tra deserti e lager, ha sviluppato un rapporto differente con la vita, con le solite domande per ascoltare le solite risposte, non è più una chiave di lettura.

Pagliassotti non sente il bisogno di idolatrare nessuno, con una grammatica opposta e simile a quella di chi odia. Non c’è da assaltare una persona in fuga chiedendo la sua storia, perché è l’idea stessa che rendere la vita impossibile a queste persone è l’unica strategia realmente in atto.

E quella bisogna raccontare. Bisogna raccontare come siamo diventati noi. Loro devono essere messi, un giorno, nelle condizioni di raccontarsi, non di essere raccontati, anche quando con tutta l’empatia del mondo lo si è fatto. Lo ha fatto Pagliassotti, lo abbiamo fatto tutti. Ma non è servito a niente.

foto di Andrea Gabellone