Dall’inizio del 2020 sono già morti sette bambini appartenenti alla comunità indigena nella provincia di Salta. La causa per tutti è la denutrizione. Le autorità incolpano la cultura e le tradizioni, ma dietro ci sono gli interessi dell’agro-business e il modello economico
Una bambina di tre anni cammina a piedi nudi tra il fango facendo ondeggiare due taniche bianche tra le sue manine. Dietro, la madre le spiega che devono camminare per andare a prendere l’acqua per bere e fare da mangiare.
Le taniche sono facilmente riconoscibili: sono quelle del Glifosato, un potentissimo erbicida usato nelle coltivazioni di soia e cotone che avanzano attorno ai territori indigeni del nord argentino.
Dopo le aspersioni vengono buttate nelle praterie e boschi dei dintorni, e le comunità le sciacquano e le usano per raccogliere un po’ d’acqua nei pozzi, per chi ha la fortuna di averne uno nel raggio di 15 chilometri, o dalle pozzanghere che si formano dopo le sporadiche piogge. I rimasugli del veleno nei bidoni non sono in fin dei conti un gran problema: anche l’acqua raccolta è, in genere, avvelenata.
Il video è stato trasmesso 10 febbraio dalla televisione nazionale di Buenos Aires, in un servizio che cercava di spiegare com’è possibile che nel giro dei primi 40 giorni del 2020, nella provincia di Salta, nell’estremo nord dell’Argentina, siano morti sette bambini della comunità Wichí.
Tutte e tutti hanno avuto gli stessi sintomi: diarrea, vomito, disidratazione cronica. L’ultima è stata una bimba di cinque anni, che ha lottato durante due giorni in una clinica ma l’8 febbraio non ce l’ha più fatta. L’ottava minorenne morta per denutrizione nella provincia, la settima appartenente al popolo Wichí. E ci sono altri 26 minori ricoverati nelle stesse condizioni.
Di fronte allo scandalo scoppiato a livello nazionale, le autorità si sono affrettate a dare tutta la colpa alle comunità e alle famiglie. Il Ministero della Salute della provincia si è affrettato a pubblicare un comunicato in cui sosteneva che le famiglie dei bambini indigeni avevano “ricevuto le cure opportune”, e che la morte era dovuta al ritardo con cui le famiglie si sono rivolte al sistema sanitario.
A fine gennaio era già trapelata una circolare interna del ministero che proibiva a tutti gli impiegati di rendere pubblica qualsiasi informazione prodotta nell’ambito della salute della provincia, minacciando addirittura licenziamenti.
Sebbene il comunicato sull’ultima morte sia stato immediatamente cancellato, altre autorità hanno rincarato la dose. Secondo il segretario di Los Ríos, piccola cittadina della regione, il fenomeno si deve al fatto che i Wichí “sono restii all’assistenza sanitaria”, riproducendo anche una buona dose di pregiudizi intorno alla vita ancestrale delle comunità.
É normale…
La ministra della salute della provincia di Salta, Josefina Medrano de la Serna ha assicurato, nel mezzo del dibattito intorno alle responsabilità dello stato per le condizioni di salute delle popolazioni indigene, che “è normale” che i bambini Wichí muoiano in questo periodo dell’anno segnato dalla siccità estiva.
La “normalità” di queste morti però, non sembrerebbe legata a fattori climatologici, ma a motivazioni molto più strutturali. I dati statistici sulla mortalità infantile tra i Wichí rivelano di per sé un forte divario rispetto al resto della popolazione.
Infatti, se nella provincia di Salta l’indice generale si attesta su 9,8 morti per ogni mille bambini nati vivi – indice tra i più alti dell’Argentina – nel caso della popolazione Wichí arriva all’11,5. Secondo gli ultimi dati disponibili di Unicef Argentina (che risalgono al 2009), solo il 36% della popolazione indigena argentina ha accesso a una qualche forma di assistenza sanitaria.
Nel caso dei Wichí la percentuale scende al 5%. Il 19,9% non é mai andato a scuola e solo il 16,2% ha concluso le elementari. Il 37% delle madri intervistate per redigere lo studio hanno dichiarato di aver perso almeno un figlio. Le disparità sono chiaramente presenti in tutti gli ambiti della vita.
Uno studio più recente dell’Università di Salta rivela che le condizioni di vita per le famiglie indigene sono chiaramente più dure rispetto al resto della popolazione. Se in media nella provincia una casa su dieci risulta sovrappopolata, nel caso delle famiglie indigene il numero raddoppia. L’analfabetismo tra i bambini fino a 10 anni è del 5% a Salta, ma tra quelli indigeni è del 10%.
Cibo che non sfama
La porzione di terra dove vivono i Wichí, oltre ad altri popoli originari argentini, è conosciuta come Selva Chaqueña, una continuazione più arida dell’Amazzonia e il Mato Grosso brasiliano. L’area è equivalente alla superficie della Scozia.
Una zona minacciata dal disboscamento a vantaggio delle redditizie coltivazioni di soia, mais e cotone. La soia in particolare rappresenta la migliore forma d’investimento dal punto di vista della produzione agricola del nord argentino.
Le sementi geneticamente modificate per resistere a pesticidi come il Glifosato – prodotto da Bayer-Monsanto – ha fruttato agli imprenditori della zona migliaia di dollari. Nel 2017 sono stati venduti 130 milioni di tonnellate di soia, la maggior parte dirette in Cina.
Oltre a cospargere il suolo di veleni che, alla lunga, rendono il terreno incoltivabile, la soia si prende la maggior parte dei 170 millimetri di pioggia annua della zona. Per garantirne la produzione è necessario creare spazio.
Solo nel 2019 sono stati rasi al suolo 15mila ettari di foresta originaria nella provincia di Salta, dove le popolazioni indigene hanno le loro comunità e attività. Così molti e molte si trovano costretti/e a migrare ingrossando le sacche suburbane delle grandi città, cercando di sopravvivere con qualche impiego precario. Altri rimangono a vivere nei territori ancestrali, cercando di adattarsi alle condizioni imposte dall’agrobuisness e lo stato. Altri cercano di resistere, come fanno altri popoli indigeni del paese.
Secondo l’ultimo censimento, in Argentina esistono 955.052 persone che si dicono appartenenti a uno dei 38 popoli originari che abitano il territorio nazionale.
La comunità più numerosa con più di 200mila persone è quella Mapuche, nella regione australe della Patagonia, seguiti dai Toba, Guaraní, Diaguita, Colla, Quechua e Wichí.
Il 70% della popolazione indigena argentina appartiene ad uno di questi sette popoli, dalle lingue, costumi e abitudini molto diverse tra loro. Ma il filo conduttore che li unisce è la profonda e ancestrale relazione con la loro terra. Una terra minacciata quotidianamente dall’espansione dell’interesse agricolo e minerario in Argentina.
La resistenza indigena è un fenomeno molto importante. Secondo un rilevamento portato avanti da Amnesty International ed altre organizzazioni, esistono più di 200 conflitti aperti tra le comunità indigene e aziende private o autorità locali e nazionali.
Nella maggior parte dei casi si tratta di questioni legate alla proprietà della terra, attività estrattive o all’imposizione di norme che calpestano le tradizioni ancestrali delle comunità.