Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 8
La guerra che non c’é – Jennifer Radulovic
Negli ultimi giorni, e in particolar modo nelle ultime ore, decine di persone mi stanno contattando per chiedermi un commento, un consiglio o una previsione sull’epidemia da Coronavirus. Sono molto preoccupata per il motivo che induce le persone a scrivermi: sono una storica che si è occupata soprattutto di temi militari e se la gente mi interpella in una situazione come quella che stiamo vivendo oggi è perché fa un’equazione fallace, quanto pericolosa, tra i recenti provvedimenti del governo e scenari di guerra.
La prima dichiarazione che voglio fare è che non sono la persona giusta da contattare: non sono un virologo, né uno scienziato, né un politico e sono queste le figure professionali alle quali dobbiamo riferirci adesso. L’altra considerazione che mi sento in dovere di fare come studiosa è che tracciare un parallelo tra un’epidemia e uno stato di guerra è inopportuno e potenzialmente foriero di reazioni allarmanti.
Questa non è la guerra: ci sono – ed è indiscutibile – alcune dinamiche che accomunano eventi di grandi proporzioni con conseguenti manifestazioni di psicosi collettiva e l’ovvio contraccolpo del panico generalizzato. Ci sono dei meccanismi di natura psicologica, antropologica e sociale che possono scattare, ma accanto alle analogie restano differenze sostanziali.
Paragonare le misure di contenimento da Coronavirus alla guerra è innanzitutto una mancanza di rispetto nei confronti di chi la guerra l’ha vissuta e qui alludo anche alle persone che non ci sono più e non hanno voce.
È, ancor di più, una profonda mancanza di considerazione nei confronti di chi la guerra la sta vivendo al giorno d’oggi, perché troppo spesso dai nostri baluardi occidentali (che non conoscono conflitti sul territorio nazionale da circa un settantennio) ci si dimentica che c’è gente che la guerra la sta affrontando proprio mentre leggete queste righe.
Chi vive l’esperienza di guerra ha molte paure, le più disparate, le più evidenti che possono venirvi in mente: timore di essere raggiunti da una mitragliata, di essere catturati, torturati, ammazzati, che cada una bomba sulla scuola dei tuoi figli, sull’ospedale che cerca di curare i feriti, sulla tua città, quella dove sei nato e dove hai sempre vissuto. Se sei una donna devi avere la paura concreta di essere violentata o stuprata non una volta, ma più volte.
Capite bene, allora, che certi accostamenti sono scorretti, inutili e lesivi.
Lesivi perché quando le persone reputano di essere in uno stato di polizia, in un contesto di negazione delle libertà personali e di scarsità di approvvigionamento dei viveri possono innescare – e di solito lo fanno – dispositivi complessi di eccesso di autodifesa che diventa egoismo sfrenato, che diventa violenza, che diventa insensibilità nei confronti dell’altro.
Noi tutti dobbiamo stare attenti a usare le parole, oggi più che mai. Le parole hanno un peso forte, possono creare pensiero e il pensiero crea azioni concrete. In determinati contesti sono foriere di consistenza ontologica e materica.
I giornalisti stanno facendo un lavoro straordinario e prezioso per tutti noi dandoci le notizie, ma si sa, l’informazione è potere e utilizzare una formula piuttosto di un’altra può essere pericoloso. È ovvio che alcune espressioni sono più efficaci, più comunicative, più sintetiche, ma dobbiamo sforzarci in ogni modo di non far passare un messaggio sbagliato ed evitare quello che riassumo come il concetto di “Mors tua, vita mea” che non a caso pare essere un’espressione del latino medievale, di un’epoca connotata da un forte individualismo e da tecniche di guerra psicologica che ci devono far riflettere.
Le orde di mongoli capeggiate da Genghis Khan e dai suoi eredi (il nipote Batu è colui che si è mosso alla conquista dell’Occidente cristiano) usavano tra i vari sistemi quelli di diffondere falsa notizia del loro arrivo o di azioni belliche in territori a cui erano interessati per indurre spontaneamente le popolazioni locali a varie reazioni, tra cui quella di mettersi gli uni contro gli altri, perdendo coesione interna e rispetto per le autorità.
L’esercito di Federico Barbarossa nei dintorni di Roma nel 1167 è stato completamente sbaragliato da un’epidemia tutt’oggi non identificata in maniera univoca che ha vanificato in pochi giorni una delle operazioni militari più ambiziose ed estese dei secoli centrali del Medioevo e se ciò è accaduto non è stato solo per questioni logistiche o mancanza di uomini – che hanno certamente influito e non poco – ma per i risvolti psicologici che hanno attanagliato il contingente imperiale e instillato rinnovata energia negli avversari.
Studiando la storia militare mi sono accorta che le persone si dividono solitamente in due gruppi: quelli che hanno paura di morire e coloro i quali hanno più paura di non vivere, laddove per “non vivere” si intende rinunciare alla bellezza, a ciò che rende la nostra vita degna di essere vissuta.
Talvolta non basta resistere, bisogna con forza continuare a esistere. Nella stragrande maggioranza dei casi, questo secondo gruppo è quello che ha fatto atti meravigliosi, gesti di pietà e umanità che ci rendono creature straordinarie. Ma questa non è la guerra e oggi aver paura di morire – o ancor meglio di procurare la morte alle categorie più fragili – deve essere più forte di tutto. Ci è chiesta solo qualche settimana di quiescenza.
Sentivo spesso le persone dire che avrebbero voluto stare a casa sul divano a guardare Netflix o a leggere un libro, i genitori e gli educatori lamentarsi dei ragazzi stare al chiuso davanti ai computer e adesso, come per incanto, tutti vogliono uscire. È una reazione normale, ma abbiamo gli strumenti – e quindi il dovere – di filtrare le pulsioni attraverso la razionalità.
Stiamo vivendo una situazione che non avremmo mai ponderato e ci troviamo innanzi a sfide vecchie e nuove, a genitori che per la prima volta devono sperimentare per davvero cosa significhi gestire i bambini che di solito conoscono poco e vedono meno, ad adulti che si comportano come adolescenti e sono richiamati per la prima ad autentici atti di responsabilità che risultano loro singolari, ad anziani che credono di essere invincibili perché ai “loro tempi” hanno passato la fame, a un popolo tutto, stavolta, che considera la morte e la malattia un tabù e usa perifrasi per definirle, anziché termini schietti.
Non siamo invincibili, non siamo eterni, non siamo signori del mondo perché abbiamo in mano uno Smartphone. A un virus – che non ha un’etica, una morale, una filosofia, ma soggiace solo alle crude leggi della natura – di tutto questo non gliene frega niente (Achille Lauro docet).
Siamo però ancora padroni delle nostre scelte e qui sta la grande differenza, perché spesso in guerra non si può scegliere, ma questa, per fortuna, non è la guerra. Non facciamola diventare tale.