Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 9
Il futuro non è scritto – Andrea Cegna
Inizialmente scrivevo dalla zona rossa, una zona che tante volte ho cercato di violare, ancora prima di Genova2001. L’impressione che fossero zone tristi, dove il potere si trovava isolato nella sua tristezza è divenuta realtà quando per qualche giorno ci si siamo trovati dentro. Ma è durata poco. Il governo ha trasformato tutto il paese in un unica zona di cura collettiva. Ma facendolo ha tradito il suo asservimento al capitalismo: fabbriche, banche, borsa, vendite on line – e quindi attività di consegna, non si fermano. Produzione, finanza, e logistica, tre degli assi portanti del capitalismo non possono rallentare nemmeno davanti alla pandemia.
Lo sconforto si è fatto molto più denso della tristezza da zona rossa. Ma poi la mobilitazione operaia del giorno dopo ha riacceso la fiammella della speranza, del rifiuto delle regole imposte, della dignità individuale e collettiva di chi non baratta la sua salute per il bene economico di pochi.
L’iniziativa operaia è stata importante. Certo. Ma come il resto della vicenda ha messo in luce il fallimento dello stato dopo anni di dogma neoliberista. Il virus che è certo democratico, perché infetta ricchi e poveri, giovani e anziani, mostra la violenza di una società assolutamente non orizzontale.
Che la sanità pubblica fosse stata declassata, prima di tutto perché trasformata in “azienda ospedaliera” e poi perché si è vista togliere finanziamenti a favore del privato, era all’ordine del giorno.
Per anni si è costruita la narrazione di un servizio scadente, lento e imballato per aprire al privato, dove per essere veloci devi pagare. Ma non tutti e tutte possono. Il coronavirus, con la sua alta capacità infettiva, ha fatto vedere il dramma dei tagli. L’emergenza sanitaria, in queste dimensioni, quindi non è altro che il risultato delle politiche umane degli ultimi anni.
Così come sono state le politiche umane a parcellizzare e moltiplicare le forme di rapporto lavorativo. Lo stop alle attività lavorative però ha mostrato la sua violenza in tutta la sua forza, perché quasi contemporaneamente, tutti e tutte le lavoratrici e i lavoratori che vivono sperando di non rompersi una gamba per poter continuare ad accedere ad uno stipendio si sono visti obbligati a stare a casa, con il loro dramma personale. Si, perché la precarietà e la svendita dei diritti sul lavoro sono di fatto stati per decenni drammi individuali, vissuti da chi affrontava la difficoltà. La solidarietà è sparita, l’incubo diventato soggettivo. Covid 19 l’ha, però, reso visibile e collettivo.
La campagna #IoStoAcasa, che Fiorello e Jovanotti hanno cantato e spinto, denota una cultura del possesso egemone, così come quella dell’egoismo. Nel nostro paese non tutti e non tutte hanno una casa. Come ci comportiamo con queste persone. Nei decreti d’urgenza non vi è traccia di uno stop agli sfratti e agli sgomberi e arrivano, anche, notizie di senza tetto multati perché, appunto, trovati fuori casa.
Il virus colpisce tutti e tutte. Ma una società squilibrata fa si che non tutti possano vivere la quarantena nella stessa maniera, con la stessa serenità o ansia.
Non è permesso a tutti e tutte fermarsi e godersi il tempo dell’assenza di lavoro, scadenze e impegni. Il coronavirus, il Covid-19, ci dice una cosa: il virus nella nostra società è il capitalismo. L’emergenza sanitaria sarà risolta con l’arrivo di un vaccino contro il Covid 19, la crisi economica e sociale che si apre può essere risolta trovando un vaccino collettivo alle logiche riproduttive del capitalismo o saranno quelle logiche a traghettare una via che, come sempre, avrà come vittime i più deboli.
Il Covid 19, a dire il vero non è così democratico, come ogni virus colpisce alcuni soggetti in particolare: anziani ed immunodepressi, Gli zapatisti e le zapatiste mi hanno insegnato che un mondo diverso si costruisce camminando la passo del più lento, senza lasciare indietro nessuno, proteggendo immunodepressi e anziani ora, e sconfiggendo il virus capitalista domani, mi verrebbe da dire. E mi preoccupa pensare che si possa espandere in zone del pianeta dove la violenza di un sistema economico impari è più palese, dagli hotspot di Lesvos, alle comunità indigne del latino America, passando per le carceri del nostro paese, che senza rivolte degne come quella della scorsa settimana, resterebbe un luogo dimenticato.
Vivo in provincia di Brescia, uno dei punti di maggiore infezione del momento. Quando scrissi, a fine febbraio, un pezzo per MilanoInMovimento scrissi subito che io vedevo un unica ipotesi che potesse tutelare un poco la salute come bene comune: il blocco di ogni attività lavorativa (se non quelle legate alla cura della salute) e l’invito a limitare i contatti umani. Nello stesso scritto sostenevo che la militarizzazione era inutile, e un gesto di violenza.
Io penso, e lo penso con forza, che chi “rompe i divieti” oggi non stia facendo l’eroe, né un gesto di disobbedienza. La cultura del NOI e della cura collettiva dovrebbe valere, per qualche tempo più dell’IO.
Penso quindi che chi non rispetta le norme, nella maggior parte dei casi, sia egoista e abbia introiettato al 110% le logiche delle presunte libertà individuali (concesse) come bene primario. Però non considero loro untori, e non mi accanisco contro di loro. Abbiamo visto la nostra politica muoversi guardando alla mascherina e al portafoglio, il tanto osannato sindaco di Milano Sala correre a dire che #MilanoNonSiFerma e che si doveva riaprire tutto, assieme a Confindustria. Abbiamo visto decreti ambigui, contraddittori. Abbiamo visto bloccare tutto ma non produzione, logistica e finanza. Ecco le responsabilità maggiori stanno qui. E stanno nel quadro di comando. Assieme a chi per mesi e settimana ha raccontato il coronavirus come la nuova peste, agendo un clima da panico.
Ho letto parlare di stato d’eccezione, citare Focault, leggere l’odierno con le lenti di storie già viste. Penso, con umiltà, che questa pandemia obblighi tutte e tutti a nuovi sforzi d’analisi, nuove misure interpretative, mettere a verifica quello che è sempre stato con la necessità d’azione ci cura. Perché o si agisce, o si fa come Boris Johnson, lasciar correre, sopravviverà chi sopravviverà e da li si riparte, un discorso, permettermi, evoluzionista-darwinista che però cancella politiche sociali, concetti di costruzione di comunità umane, di collettività e di livellamento delle differenze. Le letture, frettolose, sull’imposizione di stati autoritari e laboratori sociali non sono ancora riuscite a rispondere ad un semplice domanda: che fare con il Covid-19?
Ora così ci troviamo in un guado dove la cultura del nemico ha trasformato chi vuole uscire a fare una passeggiata in una sorta di untore che deve girare con l’autocertificazione, la polizia nelle strade, parchi chiusi e sindaci che cacciano le persone in diretta Facebook, industriali che attaccano gli operai che scioperano e CGIL, CISL e UIL che discutono 18 ore per portare a casa norme di tutela della salute che non ci sarebbe nemmeno dovuto avere il bisogno di discutere.
Il ritardo nell’azione di contenimento, l’ambiguità dei decreti, l’egoismo individuale e le bramosie di ristrutturazione del capitalismo sono un pezzo che agisce nel problema. Ora, certamente, abbiamo due urgenze: la prima è continuare a non lasciare indietro nessuno e nessuna e quindi continuare a far in modo che il virus si diffonda il meno possibile, la secondo è guardare sempre con occhi critici le ricette che ci vengono fornite, rifiutando, qualora sia necessario, la limitazione delle libertà individuali e costituzionali.
E poi abbiamo la grande sfida: emergenze e crisi sono occasioni in cui chi comanda trova il modo di agire per accrescere il suo potere, si può stare a guardare per dire poi quanto è stato cattivo, o si può essere attori protagonisti nell’uscita dalla crisi, dipingere il quadro che colora un futuro positivo per tutte e tutti, trovare una lingua comune che descriva il mondo che vogliamo, immaginare un welfare capace di pareggiare le distanze sociali, che le ricchezze siano re-distribuite con continuità, che casa e sanità sia accessibili a tutte e tutti, sempre, che la scuola sia gratuita dalle elementari all’università. Pretendere che a pagare la crisi non sia chi subisce le immonde politiche neoliberiste da oltre 30 anni.
Partiamo dalla pretesa di una patrimoniale, a livello quanto meno europeo, e quindi dallo stazionamento di un reddito universale di quarantena, ma non quindi quello proposto da un ricercatore della Bocconi e poi dall’erogazione di un reddito incondizionato di base.
Insomma mai come ora “il futuro non è scritto”, va immaginato un mondo senza schiavi e padroni, e sta a noi, scriverlo, combattendo il virus, assieme.